La Francia e il franco dei paesi ex-coloniali

L’argomento al centro del dibattito in questi giorni è quello relativo alle dichiarazioni del vice-presidente del Consiglio dei ministri Luigi Di Maio in merito alla valuta delle ex-colonie francesi in Africa, il CFA.

Personalmente, ritengo che avere un’unica moneta, perdipiù ancorata all’euro, in un’area valutaria costituita da paesi con economie arretrate e deboli sia una follia. Questi paesi avrebbero bisogno di grande flessibilità, non di avere una moneta rigida o semirigida che forse li vincola a scelte imposte altrove, in condizioni economiche diverse.

Nel merito, credo che delle accuse di Di Maio una sia strumentale, ma l’altra è secondo me corretta. L’esponente del M5S sostiene infatti che la Francia impoverisce le sue ex-colonie (e questo è secondo me verissimo) e finanzia il proprio debito pubblico (e questo non credo sia possibile). Infine, non credo che questa sia la causa della spinta ad emigrare. Quest’ultima penso sia dovuta (l’ho già scritto diverse volte) a diversi fattori: guerre, carestie, epidemie, cambiamento climatico. Una spinta inarrestabile che non può certo essere governata con gli strumenti proposti dall’attuale governo, ma che richiede una risposta unitaria a livello globale (non basta l’Unione Europea).

Ho comunque cercato (e continuerò a cercare) di saperne qualcosa di più e ho trovato questo articolo di Cristiano Lanzano (Il Manifesto, 23 gennaio 2019). Lo ripropongo qui sotto per comodità.

Il franco Cfa è un vantaggio per la Francia ma non è una tassa coloniale

Il franco della discordia. Non è un caso che sui social il dibattito sul franco Cfa sia spesso arrivato mediato da profili e blog della destra radicale, semplificato e mescolato a teorie complottiste (come il fantomatico piano Kalergi di «sostituzione etnica») che offrirebbero facili spiegazioni o «rimedi» per i flussi migratori dall’Africa.

La Francia impoverisce le sue ex-colonie e finanzia il proprio debito pubblico battendo moneta al posto loro? Le dichiarazioni di Di Maio si collegano a una critica crescente, in Africa e nel mondo francofono, nei confronti dei legami economici post- o neo-coloniali tra la Francia e le sue ex-colonie, e in particolare del funzionamento del franco CFA, cioè della moneta attualmente in circolazione in quattordici Stati dell’Africa occidentale e centrale (ripartiti in due unioni monetarie): erede di una valuta unica creata in tarda epoca coloniale, allora caratterizzata dalla convertibilità automatica con il franco francese, oggi il franco CFA è legato a un tasso di cambio fisso con l’euro. Negli ultimi anni è cresciuto il dibattito sull’autonomia finanziaria dei Paesi africani, e il franco CFA è spesso stato portato ad esempio dei legami di dipendenza che è urgente superare.

Molti esperti sono critici nei confronti degli effetti di un’unione monetaria africana “ancorata” all’euro. Secondo Ndongo Samba Sylla, economista senegalese e ricercatore alla Fondazione Rosa Luxemburg (co-autore del recente “L’arme invisible de la Françafrique”), il franco CFA “distrugge ogni prospettiva di sviluppo economico nelle nazioni che lo utilizzano”, limitando la competitività delle esportazioni degli Stati africani e vincolando le loro politiche agli indirizzi monetari restrittivi caratteristici dell’Eurozona, con effetti negativi sullo stimolo alla produzione locale e lo sviluppo delle infrastrutture e dell’industria.

Le élite locali hanno spesso difeso l’unione monetaria per la sua capacità di garantire stabilità e attirare investimenti esteri, ma in un contesto in cui lo spazio per politiche industriali e redistributive dei governi è stato pesantemente ridotto dalle riforme di aggiustamento strutturale sono ormai in pochi a beneficiare di tale stabilità. A questo si aggiungano dei meccanismi di governance che riaffermano un ruolo centrale della Francia, che siede nel Comitato di Politica Monetaria del franco CFA, e ospita un conto in cui i governi africani coinvolti depositano una parte delle loro riserve di valuta estera (che restano inutilizzate) in contropartita all’impegno del governo francese di garantire la convertibilità del franco CFA.

È possibile, però, affermare – come fa Di Maio – che con il franco CFA si finanzia il debito pubblico francese? Al netto degli ovvi vantaggi che le imprese francesi (ma più in generale europee e internazionali) che investono in Africa traggono dal sistema di cambio fisso con l’euro, sostanzialmente no: l’affermazione sembra legata all’idea di una “tassa coloniale” che le ex-colonie dovrebbero versare periodicamente al governo francese, notizia spesso circolata online ma dimostrata falsa. Non è un caso, d’altra parte, che sui social italiani il dibattito sul franco CFA sia spesso arrivato mediato da profili e blog della destra radicale, notevolmente semplificato e mescolato a teorie complottiste (come il fantomatico piano Kalergi di “sostituzione etnica”) che offrirebbero, secondo i loro diffusori, facili spiegazioni o “rimedi” per i flussi migratori dall’Africa.

Anche in questo caso, come per le politiche europee di austerità, politici ed esperti mainstream hanno a lungo rinunciato a elaborare una critica fondata di un sistema che crea squilibri e disuguaglianze, finendo per lasciare spazio a semplificazioni quando non a fake news. Che questo accada per liquidare la “retorica dei morti in mare” con un invito agli africani a starsene a casa loro rende le dichiarazioni di Di Maio ancora più strumentali e propagandistiche.

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