Gerusalemme non è la capitale di Israele

I diritti dei palestinesi. Israele a tutt’oggi si è rifiutata di definire il limite dei propri confini per finalità di diritto internazionale, presumibilmente per permettere ulteriori espansioni fino a quando la totalità della biblica Terra Promessa sarà sotto il suo controllo totale. A rischio di estinzione, in particolare, c’è la fetta di territorio della West Bank che da Israele viene indicata con i nomi biblici di Samaria e Giudea, sostenendo in questo modo l’idea che tradizione etnica e religiosa abbiano la precedenza sul diritto internazionale contemporaneo

Richard Falk [*], Il Manifesto, 10 dicembre 2017

Tutti coloro che rilasciano dichiarazioni pubbliche per conto del governo di Israele, si deliziano nel difendere la provocatoria decisione di Donald Trump di riconoscere Gerusalemme come capitale di Israele con il seguente assioma: «Israele è l’unico stato nel mondo che non ha il permesso di poter situare la propria capitale in un luogo di sua scelta».

Di per sé tutto questo costituisce un proclama che pare innocente e perfino preciso, fino a quando non si ragiona su come stiano veramente le cose. Se ci riflettiamo un attimo, sarebbe molto più ragionevole la seguente enunciazione: «Israele è l’unico stato al mondo il cui governo ha il coraggio di eleggere come sua capitale una città oltre i propri legittimi confini di sovranità, una città, per altro, soggetta a chi esercita diritti superiori».

Israele a tutt’oggi si è rifiutata di definire il limite dei propri confini per finalità di diritto internazionale, presumibilmente per permettere ulteriori espansioni fino a quando la totalità della biblica Terra Promessa sarà sotto il suo controllo totale. A rischio di estinzione, in particolare, c’è la fetta di territorio della West Bank che da Israele viene indicata con i nomi biblici di Samaria e Giudea, sostenendo in questo modo l’idea che tradizione etnica e religiosa abbiano la precedenza sul diritto internazionale contemporaneo.

C’è un’altra riflessione da aggiungere. Sarebbe infatti necessario tornare indietro di 70 anni, alla controversa partizione decisa dalla «Risoluzione 181» dell’Assemblea generale delle Nazioni unite. Israele, negli anni seguenti, si è spesso congratulata con la risoluzione, in contrasto con l’opposizione dei palestinesi. Quest’ultimi hanno dovuto subire massicce espulsioni e perdite di territori durante la guerra nel 1947, conosciuta come la Nakba per i palestinesi. Israele per anni ha argomentato che l’accettazione della «Risoluzione 181», annulla le rimostranze attribuibili alla Nakba, includendo il diniego ai palestinesi di qualsiasi diritto al ritorno alle loro case o ai luogo di residenza, malgrado il proprio collegamento con la propria terra e il diritto di identità palestinese.

Quello che il governo di Israele vuole dal resto del mondo, è che sia dimenticata quella che è la presente situazione stabilita dalle Nazioni unite per quanto riguarda lo status di Gerusalemme come parte integrante della «Risoluzione 181».Viceversa, Israele ha propagandato al mondo la falsa storia che la «Risoluzione 181» trattava esclusivamente le divisioni del territorio; di conseguenza le rivendicazioni riguardo Gerusalemme vanno ignorate e dimenticate.

Quanto venne proposto nella decisione delle Nazioni Unite e quanto Israele «accettò» nel 1947 fu che la città di Gerusalemme, riconoscendo il collegamento di identità nazionale per i palestinesi e per gli ebrei, non doveva essere sotto il controllo sovrano di nessuna delle due popolazioni ma doveva essere internazionalizzata e soggetta all’amministrazione delle Nazioni unite, riconoscendo il particolare significato simbolico e religioso di Gerusalemme per le tre religioni monoteiste.

Potrebbe essere arguito da parte degli assertori della decisione di Trump che anche i palestinesi e il mondo arabo (in virtù dell’Iniziativa di Pace araba del 2002) hanno silenziosamente sostituito l’internazionalizzazione di Gerusalemme con la «soluzione dei due stati», in base alla quale si realizza il presupposto condiviso da entrambe le parti, affinché Gerusalemme venga condivisa in modo da concedere a Israele e Palestina di stabilire la loro capitale entro i limiti della città.

La maggior parte dei progetti avanzati per i due stati, indicano Gerusalemme est – che Israele ha occupato da 50 anni, sin dalla guerra del 1967 – per i palestinesi. Anche in questo caso esiste una strana diversificazione fra quanto Israele si vuole arrogare come diritto e quanto il diritto internazionale prevede. Israele, al termine della guerra del 1967, ha immediatamente asserito che tutta Gerusalemme costituiva la «città eterna» per il popolo ebraico. Il governo di Tel Aviv è andato ben oltre. Con un decreto ha esteso l’intera area che comprende la città di Gerusalemme quasi raddoppiando il territorio e accorpandosi una serie di comunità palestinesi.

Per tornare alla bruciante domanda del perché debba essere negate a Israele il diritto di situare la propria capitale dovunque voglia o convenga, è opportuno riformulare quanto richiesto da Israele nei seguenti termini: «Esiste il diritto di ogni stato a decidere di stabilire arbitrariamente la propria capitale in una città che è occupata, ovvero in virtù dell’autorità esclusiva di sovranità designate dal proprio governo territoriale?»

Per quanto riguarda il danno provocato dall’iniziativa di Trump nel riconoscere Gerusalemme capitale di Israele e la dichiarata intenzione di spostare l’ambasciata americana, è impossibile da quantificare adesso, benché un eventuale ritorno alla violenza, all’estremismo politico, al terrorismo antiamericano e a una situazione di guerra estesa nella regione mediorientale, verrà attribuito a un errore diplomatico di Trump.

Allo stesso modo risulta ormai evidente, in base alla decisione di per sé, il danno molto grave fatto alla reputazione della leadership degli Stati uniti a livello regionale e globale. Altrettanto dicasi per l’autorità delle Nazioni unite che ha dimostrato di non avere la capacità di dirimere controversie a livello geopolitico, mettendo da parte il diritto internazionale e l’opinione pubblica mondiale.

Le prospettive per una diplomazia fondata su uguaglianza di diritti per i palestinesi e gli israeliani si è ridotta a zero e una speranza di giustizia per i palestinesi non è al momento prevedibile.

[*] Professore emerito a Princeton ed ex rapporteur Onu per la Palestina

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