Il quorum possibile

In questi ultimissimi giorni che ci separano dal referendum del 17 aprile iniziano a circolare alcuni sondaggi che ci dicono come il raggiungimento del quorum, sebbene ancora incerto e difficile, sia possibile. Incrociamo le dita e facciamo i debiti scongiuri, ma i segnali che provengono dal nervosismo di Renzi parlano chiaro: il premier ha paura di incassare la prima sonora batosta della sua carriera politica. D’altra parte, parafrasando una nota campagna pubblicitaria del recente passato, finora si è dimostrato uno cui piace vincere facile perché incassare l’approvazione di un Parlamento eletto in maniera anticostituzionale, con un premio di maggioranza che praticamente impedisce ogni forma di opposizione, con varie stampelle di opportunisti del centro destra, non penso possa rappresentare un valido metro di paragone.

Dal punto di vista politico, il risultato è già ottimo. Si tratta ora di compiere l’ultimo sforzo per far sì che la vittoria sia totale e che il castello di menzogne e di ipocrisia crolli travolgendo con sé le carriere politiche di chi lo ha costruito. Oltre all’invito ad astenersi, che dovrebbe venire sanzionato dalla magistratura per chi riveste cariche istituzionali e al tentativo – peraltro molto rischioso – dello stesso premier di trasformare le campagne referendarie in plebisciti sulla sua persona, ci hanno raccontato di migliaia di posti di lavoro che sarebbero andati perduti, di un attentato all’autonomia energetica del nostro Paese, addirittura si sono spinti a evocare la ragion di Stato.

Ne ho già parlato nei giorni scorsi, ma forse, un piccolo riepilogo può essere utile.

Cominciamo dalla questione dell’invito all’astensione. A questo la risposta migliore l’ha data, secondo me, Giovanni Incorvati, nel suo lungo e documentatissimo articolo apparso su Critica Liberale, Perché sul referendum Renzi viola la legge. Svolte e rimozioni, il divieto per il governo di indurre i cittadini all’astensione. Aggiungo soltanto che siamo di fronte all’ennesima manifestazione di arroganza del potere, dopo le poco brillanti prove che il governo ha dato alla luce dello scandalo che ha portato alle dimissioni del ministro Guidi. A me sembra che il legame fra il tema affrontato da questo referendum, da quelli sociali e contro l’Italicum e da quello confermativo dell’abolizione del Senato sia chiaro (in parte ne avevo accennato qualche giorno fa, ora, sempre su Critica Liberale, trovo un articolo che affronta assai più autorevolmente lo stesso tema: Piero Lacorazza, Sud, regioni e trivelle. Anteprima dal n. 227 – primavera – del trimestrale Critica Liberale).

Sulle due questioni della perdita dei posti di lavoro e della dipendenza dell’Italia da fonti di approvvigionamento estere è stato scritto molto (e qualcosa ho riportato, quello che ho trovato più interessante, nella mia raccolta di documenti e articoli sull’argomento. Ma i sostenitori del NO hanno rafforzato questi concetti richiamandosi a una presunta ragion di Stato, sostenendo, di fatto, le ragioni dell’Eni. Peccato però che Eni non sia più un’azienda pubblica, non stiamo parlando di Statoil, la compagnia petrolifera norvegese di proprietà del governo. Eni è stata privatizzata da anni ed è a ben vedere un’azienda multinazionale con la maggioranza delle azioni detenute al di fuori dell’Italia.

Ripartizione dell’azionariato Eni per area geografica1
Azionisti Numero di azionisti Numero di azioni possedute % sul capitale
Italia 299.168 1.654.495.302 45,53
Uk e Irlanda 914 377.027.408 10,37
Altri Stati Ue 3.822 814.587.800 22,41
USA e Canada 1.294 396.452.141 10,91
Resto del Mondo 1.029 353.966.787 9,74
Azioni proprie 1 33.045.197 0,91
Azioni per le quali non sono pervenute segnalazioni nominative n.d. 4.610.695 0,13
Totale2 306.228 3.634.185.330 100.00

Quale ragione di Stato, quindi? Forse sarebbe più appropriato parlare di pressioni lobbistiche e poi non tutte le compagnie petrolifere che operano nelle nostre acque territoriali sono – seppure ormai solo nominalmente – italiane. Inoltre, secondo quale logica imprese private che perseguono i propri obiettivi di profitto, estraendo, come in questo caso, beni che dovrebbero essere della collettività, rappresentano la ragione dello Stato, ovvero la ragione pubblica? Voglio lasciare l’interrogativo aperto, perché questo è uno di quegli argomenti che meritano la più ampia riflessione e la questione non dovrà esaurirsi il 17 aprile.

Negli ultimi giorni abbiamo assistito a una accelerazione mediatica. Evidentemente il tentativo di mettere la sordina a questo referendum e costringere in una sorta di atmosfera ovattata le voci schierate a favore del SI è fallito e si sono moltiplicati gli interventi di personaggi del mondo dello spettacolo, scienziati, esponenti del mondo della cultura. Speriamo quindi che il popolo italiano risponda a queste sollecitazioni e vada a votare in massa.

A me non resta che lanciare un’ultima provocazione. Il primo destinatario sono io, perché non sono mai stato particolarmente sensibile alle tematiche ambientali. Mi sembra però che questo voto vada inquadrato nel contesto della modernità (presunta categoria filosofica). Ammesso e non concesso che l’utilizzo di questo termine abbia un senso, allora si scontrano due visioni diametralmente opposte: quella di una modernità “antica”, rappresentata da schemi del passato che si basano sullo sfruttamento industriale degli oli minerali e dei gas naturali (l’automobile cent’anni fa era modernissima!) e una modernità “moderna”, che prende coscienza – e spero una coscienza diffusa – del fatto che questi schemi sono obsoleti e non più sostenibili, così come non è più sostenibile un assetto sociale che privilegia l’1% a spese del 99%.

E alla fine, gira che ti rigira, si finisce sempre a parlare di lotta di classe…


Note:

  1. Fonte: eni.com
  2. Il capitale sociale di Eni ammonta a 4.005.358.876 euro ed è rappresentato da 3.634.185.330 azioni ordinarie nominative price di indicazione di valore nominale

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