Monsone di maggio

Il vento della stagione, il vento verde,
carico di spazio e acqua, esperto di sventure,
avvolge la bandiera di lugubre cuoio,
e d’una labile sostanza, come moneta d’elemosina,
così, d’argento freddo, s’è coperto un giorno,
fragile come la spada di cristallo d’un gigante,
fra tante forze che difendono il suo timido sospiro,
la sua lacrima che cade, la sua inutile sabbia,
circondato da forze che s’incrociano e scricchiolano,
come un uomo nudo nella battaglia,
che alza il suo ramo bianco, la sua certezza incerta,
la sua goccia di sale tremula nella terra invasa.

Che riposo cominciare, che povera speranza amare,
con così debole fiamma e fuggitivo fuoco?
Contro chi alzare la scure affamata?
Da che materia staccarsi, fuggire da che raggio?
La sua luce fatta appena di longitudine e tremore
trascina come coda
della veste di sposa malinconica
adorna di sonno mortale e di pallore.
Perché tutto ciò che l’ombra tocca e il disordine desidera,
pesa, liquido, sospeso, senza pace,
indifeso negli spazi, vinto dalla morte.

Ahi, ecco il destino di un giorno già sperato,
verso il quale correvano affari, lettere, navi:
morire, fermo e grondante senza il proprio cielo.
Dov’è il tuo tordo di profumo, il suo profondo fogliame,
la sua veloce nuvola di brace, il suo respiro vivo?
Immobile, vestito d’uno splendore moribondo
e d’una scaglia opaca,
le sue metà vedrà dividere la pioggia
e unirle al vento che si nutre d’acque.

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