Pietro Ingrao su Charlie Chaplin, l’antagonismo dell’eroe buffo

Charlie Chaplin moriva nel giorno di Natale del 1977. Pochi giorni dopo, sulla rivista La Città Futura usciva questo articolo di Pietro Ingrao, successivamente riproposto nel libro Tradizione e Progetto, edito da De Donato, Bari 1982.

L’antagonismo dell’uomo buffo

Pietro Ingrao

È stato detto che Chaplin ha saputo parlare al mondo intiero; e dell’opera sua sono state date tante interpretazioni, da angolazioni a volte molto differenti. Scusatemi se non so resistere alla tentazione di darne anch’io, assai sommariamente, una, e con tutti i dubbi del caso.

Confesso che è un’interpretazione che si tiene molto vicina – come dire? – alla lettera delle cose dette da Chaplin, alle opere sue così come appaiono immediatamente; e che mette una data precisa al mondo e all’opera di Chaplin. Checché se ne dica, egli non parla della condizione umana in generale, di un uomo astorico. Parla di una società concreta: il mondo capitalistico del primo mezzo secolo, visto a partire dal suo luogo più esemplare: l’America. Ed è un capitalismo visto nel suo movimento. La maschera esterna di Charlot resterà la stessa per molti anni: ma cambia il mondo attorno a lui e lui stesso. C’è una differenza tra l’America delle prime comiche, e ancora del Kid e della Febbre dell’oro, con i suoi traumi clamorosi, ma anche con il senso di un’avventura, in cui l’emarginato sembra ancora che possa rientrare nel gioco; e l’America di Luci della città dove l’emarginazione ha già il carattere di una ineluttabilità radicale; e poi quella di Tempi moderni dove la crisi e la bufera investe non più solo il reietto, ma l’uomo comune; sino a Monsieur Verdoux, che parla esplicitamente di crisi organica di tutto un modello di vita. Si potrebbe anche dire che Chaplin coglie via via il dilatarsi della contraddizione che reca con sé la società capitalistica.

Il comico mi sembra lo strumento con cui egli dissotterra questa contraddizione, e fa emergere il conflitto continuo tra la logica dei meccanismi sociali in atto e bisogni umani tra i più semplici ed essenziali. E badate: Charlot non è Pierrot che cerca la luna; egli vuole fare le cose più normali: mangiare, bere, unirsi con una donna, lavorare, avere una casa, andare a spasso. Ma questi bisogni non riescono a connettersi con la logica (o con l’arbitrio) della società, con le sue leggi, con i suoi ritmi. Ecco allora il comico, sino all’assurdo, al surreale. Si ride a crepapelle: il comico è l’esplicitarsi della contraddizione e al tempo stesso il segno della sua asprezza, del tragico o del patetico che le è implicito.

La contraddizione produce un antagonismo. Cioè: il comico chapliniano non è solo demistificazione di un mondo. Ricordiamoci che c’è il personaggio Charlot: occupa troppo spazio nell’opera di Chaplin per essere visto solo come strumento demistificante. È vero che Chaplin ride su Charlot; cioè mantiene un distacco nei suoi riguardi. Ma lo assume come punto di riferimento; ne fa, a suo modo, un eroe. Charlot non è solo una vittima; è uno che combatte sempre, e resiste. È parte e frutto di quella società capitalistica; ma è anche il rifiuto di sciogliersi e assimilarsi nella logica di quella società.

Dunque il mondo chapliniano non è un marcusiano «universo unidimensionale»: reca in sé un antagonismo, che ha una sua autonomia. Ricordate il gesto charlottiano: il gesto della mano con cui egli, anche quando si ritira per non buscarle, fa segno al prepotente di starsene lontano, di stare attento; ribadisce una dignità e una autonomia. Ricordate i finali dei film chapliniani: non v’è mai l’integrazione dell’omino; c’è il suo allontanarsi, che è sempre una sua affermazione elementare di autonomia. A voler adoperare un termine gramsciano, si potrebbe dire che nell’omino, anche quando è sconfitto e ripiega, resta sempre vivo lo “spirito di scissione”.

Certo è un “eroe” buffo: terribilmente, continuamente buffo. Pochi personaggi come Charlot sono – mi sembra – così disperatamente “eroi” (piccolo, pieno di paura, debolissimo si cimenta sempre con grandi, grossi e potenti, donchisciottescamente), e al tempo stesso buffi, sino al ridicolo. Ma qui io trovo che è la grande modernità di Chaplin. In fondo l’unico “valore” nel mondo terribile e violento che egli descrive è l’omino; ma in ogni momento della sua “eroicità” l’ornino casca subito nel ridicolo: si potrebbe dire che tale buffonaggine sottolinea dunque dove sta il valore di Charlot, la sua qualità umana. L’eroe è uno della strada, uno dei tanti, anzi uno che rispetto alla logica corrente della società in cui vive, continuamente scivola, cade nel buffo. Anche le sue sconfitte non hanno nulla di prometeico, e nessuna armoniosità, nessuna solennità. Il che, secondo me, ci dà una visione laica, terrestre, niente affatto elitaria, della dignità umana; e ci sottolinea di quante continue, ricorrenti contraddizioni è intriso il cammino nel reale e del reale. In fondo, aver messo e preso a simbolo un eroe cosi “ridicolo”, mi sembra un fatto acutamente, profondamente moderno; e da non dimenticare.

A questa complessità antiretorica, a questa nozione della contraddittorietà del reale corrisponde una singolare nettezza della forma. Me ne intendo assai poco, ma proprio non mi sento di accettare alcuni giudizi che ho letto e che alludono in qualche modo ad una “rozzezza” o sgrammaticatura del fare cinema di Chaplin. A me invece i suoi film sembrano opere estremamente costruite nella forma, nel senso che ogni inquadratura o pezzo della inquadratura mi sembrano rigorosamente finalizzati al discorso. Persino certi passaggi narrativi che sembrano da feuilleton, hanno la nudità di un simbolo, dichiaratamente, esplicitamente sommario: quel tanto che gli serve per sviluppare il discorso sull’essenziale, su ciò che gli preme. E lui, Charlot, è tutto intiero forma; in ogni mossa: dalla bombetta alla punta delle scarpe sdrucite. Qui ci sarebbero da vedere le differenze con la storia di certe avanguardie artistiche moderne: ciò che Charlot ha preso da loro (le analogie con certi impianti del surrealismo) e ciò che invece lo colloca così lontano da quella problematica, che ha portato certe avanguardie a definire il proprio linguaggio nel farsi stesso della forma, nella sua processualità e ambiguità, piuttosto che nel “finito”.

Forse però anche qui bisogna mettere delle date; e non dimenticare che Chaplin sta a cavallo di epoche diverse; e arriva fino ad un certo orizzonte. Questo è certamente vero per la società che egli descrive: è la società capitalistica delle crisi esplosive, delle grandi “catastrofi” degli anni Venti e Trenta: il crollo del ’29, la disoccupazione di massa, la guerra mondiale, il razzismo, il fascismo, il nazismo. Lo Stato stesso è visto quasi esclusivamente nei suoi apparati repressivi più elementari (carceri e poliziotti), e la stessa “società civile” è racchiusa in certe istituzioni tradizionali (quel tipico ambiente delle chiese protestanti, quegli organismi della “carità” e dell’assistenza che si intravedono sempre sia nelle comiche sia nei lungometraggi chapliniani). Non si sente, non si intravede ancora quello che già allora negli anni Trenta (almeno negli Stati Uniti) veniva maturando e poi si dispiegherà nell’Occidente: il neocapitalismo, il mondo “keynesiano”, lo Stato che interviene nell’economia e nella società civile, i nuovi grandi strumenti di controllo e di orientamento della società di massa, la complicatezza della macchina pubblica, che abbiamo conosciuto bene nell’ultimo trentennio.

Ma questo non è da chiedere a Chaplin. C’è invece da annotare il limite storico dell’antagonismo che egli vede nella società capitalistica, nell’America amara che descrive. Detto nel modo più breve e sommario: l’“eroe” Charlot è un individuo isolato; egli non conosce, non vive il momento della associazione; e resta ancor fuori di quel grande movimento, che – piaccia o no – ha cominciato a unificare le classi sfruttate e le forze popolari, ed ha visto sorgere (almeno in alcuni continenti) nel nostro secolo grandi aggregazioni organizzate di massa. Deve essere ben chiaro: non stiamo qui a chiedere scioccamente che l’omino Charlot esibisca una tessera di partito. Annotiamo che un fenomeno decisivo della storia di questo secolo resta fuori della macchina da presa chapliniana: anche quando in Tempi moderni, l’omino Charlot si trova mischiato e coinvolto in una manifestazione operaia di strada, in una rapida, violentissima successione di sequenze, al punto da figurare addirittura come il capo dei manifestanti che alza una bandiera rossa – anche allora tutto ciò ci appare come tumulto, come ribollire della società e non come storia organizzata di masse consapevoli. Quella manifestazione appare e scompare come un lampo.

Ed ecco, allora, l’altro limite: l’omino Charlot resiste al meccanismo prevaricatore e disumanizzante, ma tutto sommato si difende: può solo difendersi. Non si avverte ancora nelle sue vicende umane l’avvio di un’altra costruzione, di una alternativa. Al termine dei film chapliniani, l’omino si allontana in campo lungo, scrollandosi le spalle, rifiutando l’integrazione: ma non si vede dove porta la strada su cui cammina, ed è una apparizione solitaria nella strada, anche quando (come nel finale di Tempi moderni) sono in due: lui e la donna, quest’immagine tante volte sognata.

Forse anche in questo isolamento dell’omino c’è un segno della storia e delle sue date: un’eco indiretta delle vicende del movimento operaio del mondo anglosassone e delle sconfitte che conobbe in quegli anni.

Ad ogni modo sono interrogativi. Mi sembrano da porsi se vogliamo discutere di quel grande artista critico che fu Chaplin fuori da sciocche apologetiche: cercando di leggere nella sua storia e nei suoi limiti il maturare del nostro presente; quel presente che chiede nuovi pensieri, nuovi orizzonti.

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