Il referendum in Catalogna, vicenda complessa

Riporto questo contributo dell’amico Piero Graglia (professore di Storia dell’integrazione europea e di Storia delle integrazioni regionali all’Università Statale di Milano, ma soprattutto uomo di profonda cultura), tratto da www.casadellacultura.it, 4 ottobre 2017 perché trovo inquadri bene il problema connesso al referendum per l’indipendenza della Catalogna. 

Anche a sinistra si sono levate voci a favore di quella consultazione, inquadrandola nel concetto di autodeterminazione dei popoli, a mio avviso in modo sbagliato. La confusione è tanta e la lettura dell’articolo di Piero Graglia potrebbe aiutare qualcuno a schiarirsi le idee, perché la questione è assai più complessa di quello che sembra e ci potrebbero essere implicazioni importanti anche in Italia. 

LA CATALOGNA E LA SUA INDIPENDENZA
Questione di cuore o questione di testa?

La situazione catalana, e la risposta – sovente scomposta e talvolta brutale – del governo spagnolo, attraggono l’attenzione e ispirano le risposte più diverse.

Sgombriamo il campo dagli equivoci: nella dialettica democratica la richiesta di maggiore autonomia di realtà “nazionali” che si sentono diverse dal contesto statale nel quale sono inserite, ha pieno diritto di esistenza e di cittadinanza, ma l’opzione dell’indipendenza assoluta, della creazione di una realtà statuale “altra” è l’ultimo passo di un percorso che ha molti modi di esplicarsi e di difendere le sue ragioni. Soprattutto se la richiesta suddetta viene espressa non all’interno di una dittatura, ma in uno stato di diritto.

La Catalogna ha molti motivi per ritenersi realtà diversa dal contesto spagnolo: lingua diversa (per altro tutelata e adottata sia nelle scuole sia negli atti amministrativi), una storia in parte differente da quella della Castiglia, del Léon, della Valencia, delle Asturias e delle altre regioni che compongono la Spagna (per non parlare dei Paesi Baschi). Un carattere di specificità che si ritrova in molte altre parti dell’Europa contemporanea: la Bretagna, l’Alsazia e la Corsica in Francia, il Sud Tirolo e la Sardegna in Italia, le regioni fiamminghe in Belgio, la regione transilvana di lingua ungherese di Koloshvar (Cluj per i romeni, Klausenburg per i tedeschi) in Romania, e gli esempi si potrebbero moltiplicare praticamente all’infinito. L’Europa è fatta di identità nazionali ma soprattutto di identità sub-nazionali. Ciò che chiede il governo catalano non è quindi frutto di una specificità isolata, ma è una conseguenza di un dato storico diffuso: le minoranze nazionali all’interno di stati “nazionali” che forse dovrebbero più correttamente definirsi pluri-nazionali o, almeno, pluri-culturali.

La storia dei processi di unificazione “nazionale” della fine dell’Ottocento ha unificato e appiattito le differenze: l’Italia è nata “una e indivisibile” tra il 1861 e il 1870, completando il processo di unificazione nazionale nel 1918 (peraltro inglobando a sua volta minoranze di lingua e cultura diverse, austro-tedesca e sloveno-croata); la Germania è nata come Reich nel 1870, appiattendo differenze tra bavaresi e sassoni, hannoveriani e wüttenburghesi e inglobando pure essa limitate minoranze polacche e bielorusse. Pure Spagna e Francia, nella loro precedente costituzione quali regni unitari, hanno unificato differenze significative. L’Europa, con la sua storia, è piena di tali esempi.

Come hanno interpretato le culture politiche dominanti, quella democratico-liberale e quella socialista, tali differenze? Marx nel 1848 invitava i proletari di Europa a costituirsi come “classe nazionale”, e si trattava di un messaggio che faceva poca attenzione al rispetto delle minoranze presenti nel contesto della “stato unitario borghese”; il liberalismo invece metteva al primo posto il principio dell’autodeterminazione democratica, sottolineando più l’efficienza del sistema statale per la protezione degli interessi e delle proprietà dei cittadini rispetto alle diverse appartenenze nazionali.

Queste due famiglie ideologiche di riferimento, liberaldemocrazia e socialismo marxista (e poi democratico), sembrano essere ancora oggi i nostri punti di riferimento e ci portano a guardare agli eventi catalani con un misto di indignazione e di sincera ansia per la democrazia violata.

Però, c’è un però.

Lo “stato nazionale” ottocentesco ha vissuto, nel corso del Novecento, una straordinaria e costante evoluzione: dopo la prima guerra mondiale, il principio dell’autodeterminazione dei popoli ha avuto il sopravvento, in maniera dolorosa e tormentata, e spesso incoerente, sui principi dell’unificazione economica e commerciale che avevano guidato – con una spolverata retorica di nazionalismo solo per le élites – i grandi processi di unità nazionale dal 1821 alla prima guerra mondiale. Wilson, il presidente americano che provò a proporre agli europei nuove regole per la regolazione dei rapporti internazionali, pose tale principio al centro della sua proposta: i popoli coloniali, quelli sottoposti a occupazione militare da parte di un altro stato, e i gruppi minoritari che all’interno di uno Stato sovrano non avevano accesso effettivo all’esercizio del potere di governo avevano il diritto di lottare per la loro autodeterminazione. Tale principio è stato incastonato nel pratica e nel diritto internazionale in momenti successivi (Carta Atlantica 1941, Carta dell’Organizzazione delle Nazioni Unite 1945), alimentando tutte le lotte di liberazione nazionale che hanno attraversato il globo soprattutto dopo la seconda guerra mondiale, unendo aspirazione all’indipendenza con la strutturazione di un’identità nazionale: se non c’è nazione, non c’è diritto all’autodeterminazione.

Nel frattempo, i vecchi stati nazionali europei, dopo il 1945, si sono trovati a dover fare i conti con i frutti malati del nazionalismo escludente: le macerie della II guerra mondiale (guerra alimentata dal nazionalismo aggressivo di dittature totalitarie) si affiancavano al rischio ricorrente di nuovi conflitti intra-europei. La soluzione venne individuata in una formula fondata sulla sussidiarietà: affidare ad agenzie sovranazionali dapprima la gestione delle risorse carbosiderurgiche (Comunità europea del carbone e dell’acciaio, 1952-2012) e poi, al riparo degli equilibri dell’ordine bipolare, la Comunità economica europea (1957) che oggi è diventata l’Unione europea attraverso un processo profondo di trasformazione economica e commerciale, che solo parzialmente ha investito anche i processi di definizione delle high politics dei suoi Stati membri.

In altre parole, almeno formalmente, la sovranità degli stati membri nel campo della politica estera, della difesa, e della definizione dei propri confini e identità nazionale, rimane intoccata e definita secondo le rispettive Carte costituzionali, senza che l’Unione europea possa dire alcunché. Collaborazione sì, sussidiarietà, in questi campi, ancora no. L’ipotesi federalista, spettro che si aggira in Europa dal 1945, è rimasta un divertissementideologico spesso sbeffeggiato dai governi “nazionali” – meglio sarebbe a questo punto dire: “statali” – europei.

E siamo a oggi.

La Catalogna ha un PIL pro capite superiore a molte delle regioni del resto della Spagna. È “nazionalità” (secondo la Carta spagnola) fortemente industrializzata, vive di turismo e di affari, è poco più grande del Belgio e ha poco più di sette milioni di abitanti (a memoria ricordo che la “grande Paris” ha lo stesso numero di abitanti).

Non potrà entrare nell’Unione europea, qualora si formalizzasse la sua indipendenza, poiché per questo ci vuole l’unanimità dei Paesi già membri (e la Spagna non voterebbe certamente a favore). Ma questo è già un problema successivo.

Il problema attuale è se il processo di rivendicazione dell’indipendenza dalla Spagna rappresenti il riconoscimento del diritto all’autodeterminazione, oppure no.

La Catalogna ha goduto nel tempo di ampie concessioni di autonomia, quali per esempio il diritto di usare il catalano a scuola (e tutti sanno quanto la questione della lingua sia identitaria e fondamentale per definirsi cittadino di una “nazione”, sin dall’infanzia). Non è quindi in condizioni di rivendicare il diritto all’autodeterminazione poiché la sua situazione non è di regione “oppressa” politicamente da un “centro” politico che non le riconosce alcuna autonomia.

Si dirà: la richiesta di indipendenza è questione di democrazia. Per quanto detto sopra l’espressione libera di volontà è effettivamente alla base della pratica democratica, ma lo è anche il principio della solidarietà all’interno di una realtà politica costituitasi stato. Nel 1975 la Catalogna era il motore della transizione verso la democrazia, e non c’era alcuna pulsione indipendentista. Strano no? La grande e fertile tradizione politica antifranchista, in gran parte anarchica e libertaria, della Catalogna accettava l’idea di uno stato spagnolo inserito nella comunità internazionale secondo i confini definiti tre secoli prima. Poi la Catalogna ha guidato con entusiasmo l’ingresso della Spagna nella CEE nel 1987, sempre senza palesare pulsioni indipendentiste. Esse si sono invece fatte sentire dalla fine degli anni Novanta in poi, quando gli effetti dei fondi comunitari hanno modificato, in meglio, la condizione della Spagna e soprattutto della Catalogna.

Da lì in poi, è risorta la voglia di indipendenza, che ha un solo nome reale, al di là delle belle idee sognanti “che quando un popolo si desta, Dio combatte alla sua testa, la sua folgore gli dà”: un certo egoismo economico e la voglia di un distacco da una realtà politica e sociale che si considera diversa. Dal 2008 gli indipendentisti catalani hanno individuato un forte elemento dialettico per proporre la soluzione dell’indipendenza: di fronte alla crisi economica globale e alle conseguenze devastanti di essa, solo l’indipendenza aiuterà a riprendere quota alla regione. E poi sono venute le azioni concrete: nel 2006 venne approvato un nuovo statuto per la Catalogna, in sostituzione del vecchio, nato nel 1979, che garantiva alla “nazione” catalana maggiori poteri, soprattutto in campo economico e finanziario.

Il Tribunale costituzionale spagnolo nel 2010 dichiarò l’incostituzionalità di diversi articoli del nuovo statuto, tra cui quello in cui la Catalogna veniva definita una “nazione”, trasformandola in “nazionalità”. Poi abbiamo avuto una prima consultazione referendaria in favore della indipendenza, senza valore legale, nel 2014, che dette risultati poco consolanti per gli autonomisti catalani (meno della metà degli aventi diritto al voto andarono a votare) e poi l’accelerazione degli ultimi due anni, con gli esiti odierni.

Resta il dubbio di quale possa essere il futuro di uno stato indipendente catalano, ammesso, e non concesso, che esso possa costituirsi senza dolorose torsioni e conflitti interni, ma soprattutto resta il problema se questa richiesta dell’indipendenza, sic et simpliciter, non possa trovare una soluzione alla tutela delle specificità catalane in altri modi che non frammentino le unità preesistenti e non ci portino verso la deriva delle piccole patrie.

Il problema è tutto qui.

L’Unione europea non ha al momento gli strumenti per dire la sua rispetto al problema catalano (e rispetto alle tante altre “Catalogne europee”, qualora si svegliassero o si ri-svegliassero sentimenti analoghi), ma la dialettica democratica interna, la maturità di una evoluzione continentale che è andata verso l’interdipendenza più che verso l’isolamento escludente, una volta sfrondata dagli orpelli retorici della nazione e della patria, ha tutti gli strumenti per affrontare la composizione di interessi divergenti per evitare la frammentazione e la creazione di nuovi, problematici, stati di dimensione esigua.

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