Il ritardo industriale europeo

Paolo Grassino, dalla serie “Analgesia”, 2012. In esposizione a Roma alla Galleria d’Arte Contemporanea fino al 30 giugno. [Immagine tratta dal sito de Le Monde Diplomatique in francese]

Per la prima volta, la Commissione di Bruxelles ha presentato, il 23 dicembre 2016, un piano d’azione destinato a sostenere le industrie della difesa del Vecchio Continente. Avrà una dotazione di 5,5 miliardi di euro all’anno, a partire dal 2020. Ma la storia industriale europea è piena di promesse non attuate, anche quando erano modeste.

di Jean-Michel Quatrepoint[*],
Le Monde Diplomatique, giugno 2017

La politica industriale europea assomiglia a un Ufo: se ne parla molto, se ne sospetta l’esistenza, ma nessuno riesce a identificarla con precisione. Chi crede nella sua esistenza la riassume con un nome: Airbus. Gli scettici, invece, fanno l’elenco delle carcasse industriali coperte di ruggine.

Effettivamente Airbus, insieme ad Arianespace, è l’emblema di una cooperazione industriale riuscita fra Stati europei. Viene evocata come una formula magica. Alla fine del 2016, il gruppo italiano Fincantieri sosteneva ad esempio di voler creare un «Airbus dei cantieri navali» sostituendo la coreana Stx, in fallimento, nel capitale degli Chantiers de l’Atlantique. Nella primavera del 2014, Siemens proponeva da parte sua al governo francese un «Airbus dell’energia e del settore ferroviario» per evitare l’acquisizione del settore energia di Alstom da parte di General Electric (Ge). E un anno dopo, nel marzo 2015, un gruppo di parlamentari socialisti chiedeva un’alleanza fra Alstom Transport e Siemens per consolidare l’industria ferroviaria europea1. Ma che peccato! Alstom Transport ha preferito allearsi con il canadese Bombardier. A dire il vero, il bel successo di Airbus è un’eccezione in Europa, e alcuni, a partire da chi si è occupato delle sue sorti, ritengono che un progetto simile non potrebbe più vedere la luce.

Per comprendere la ragione di questa impotenza collettiva bisogna fare un passo indietro. Paradossalmente, è nell’industria che nel 1951 si concretizza l’idea stessa di Mercato comune, attraverso la Comunità europea del carbone e dell’acciaio (Ceca), formata da Francia, Repubblica federale di Germania (Rfa), Belgio, Paesi bassi, Lussemburgo e Italia. Embrione della Comunità economica europea (Cee), la Ceca sancisce la riconciliazione fra Francia e Germania che mettono insieme le proprie risorse di carbone e acciaio. Si tratta anche di farla finita con il «maltusianesimo» di un capitalismo francese ripiegato su se stesso e sulle sue colonie, obbligandolo ad adottare un modello anglosassone basato sul libero scambio e la produttività delle imprese. La manna del piano Marshall dipende anche dal rispetto di questi principi.

Nel 1957, nello stesso spirito della Ceca, la Comunità economica dell’energia atomica (nota come Euratom) mira a dividere le spese per la ricerca nel settore dell’industria nucleare. Ma le collaborazioni industriali si fermano là. Il Trattato di Roma che fonda la Cee, firmato il 25 marzo 1957, mira anzittutto a creare un mercato senza frontiere; la sua unione doganale prevede: «l’abolizione degli ostacoli alla libera circolazione, fra gli Stati membri, delle merci, delle persone, dei servizi e dei capitali». Ecco perché le rare cooperative industriali si svilupperanno in maniera intergovernativa, fuori dalle istituzioni bruxellesi. Queste ultime si accontentano di seguirle da lontano, senza interferire.

Nel 1966, il piano Calcul

Nel 1958, tornato al potere, il generale de Gaulle diffida delle idee di Jean Monnet. Accetta il Mercato comune perché vede in esso il mezzo per modernizzare le strutture del capitalismo francese. Considera la Cee uno spazio nel quale sviluppare i gruppi industriali che saranno la punta di lancia di una politica di indipendenza nei confronti degli Stati Uniti.

Nel settore aeronautico, la Francia costruisce il Concorde con gli inglesi (i quali, a causa del veto francese, non hanno ancora aderito alla Cee). Sviluppa autonomamente la propria filiera nucleare: il gas-grafite. Nell’informatica, dopo l’acquisizione di Bull da parte della statunitense Ge – e la collera del generale -, il governo francese lancia nel 1966 il piano Calcul e crea la Compagnia internazionale per l’informatica (Cii). Lo Stato guida sempre le operazioni, che le imprese siano nazionalizzate o meno.

Sul’altra sponda del Reno, si privilegia l’emergere di aziende leader nazionali. Si ricostituiscono i gruppi industriali tedeschi: Siemens, Thyssen, Daimler, Bmw, Volkswagen, e gli eredi del gruppo Ig Farben, che fabbricava per i campi di sterminio il gas Zyklon B (Agfa, Basf, Hoechst, Bayer,…) ritrovano tutta la loro potenza con la benedizione dello Stato federale. In compenso la Rfa, vincolata dal proprio status di paese che ha perso la guerra, non può nutrire ambizioni nei settori dell’aeronautica o della difesa. Nell’autunno 1966, i governi francese, britannico e tedesco lanciano un progetto di aereo a fusoliera lunga concorrente del Boeing 747. Parallelamente, Sud-Aviation continua lo studio di un aereo per rotte a medio raggio, l’A300 (Airbus 300). Ma gli industriali e le compagnie non arrivano a mettersi d’accordo sulle specificità dei futuri apparecchi, e i progetti non vanno avanti. Quanto al governo britannico, si mostra riluttante a mettere mano al portafoglio.

All’indomani del maggio 1968, Bernard Esambert, giovane ingegnere incaricato dei dossier industriali nel gabinetto dei primi ministri Georges Pompidou e poi Maurice Couve de Murville, riceve Henri Ziegler. Il presidente di Sud-Aviation gli presenta il modellino dell’A300, che «rivoluzionerà l’aviazione». Ma il progetto ha bisogno di notevoli investimenti. Lo Stato assicura dunque il finanziamento, con la clausola che gli sarà restituito solo in caso di successo (è il principio degli anticipi rimborsabili). Il presidente Pompidou (1969-1974) dà al progetto una prospettiva europea. Il capo dello Stato, ricorda Esambert, «riteneva che, per vendere aerei alle compagnie europee, occorresse associarvi i loro industriali. Dunque, ai britannici viene proposto di costruire le ali in cambio di una partecipazione. Rifiutano, preferendo un pagamento in moneta sonante. Abbiamo pagato, guadagnando tre anni»2.

Per i motori, la rivalità franco-britannica è tale che occorre cercare altrove. I tedeschi non hanno più competenze. La Francia negozia dunque un accordo fra la Società nazionale di studio e costruzione di motori per l’aviazione (Snecma) e Ge. Il consorzio franco-statunitense Cfm International conosce un grande successo industriale. Non solo fabbrica i motori di diverse famiglie di Airbus, ma arriva in seguito a diventare uno dei fornitori di Boeing sul mercato statunitense.

I francesi dominano Airbus e Arianespace: il 70% delle tecnologie e del know-how viene dalla Francia; la guida è francese. Una complessa struttura giuridica raggruppa Aerospatiale, nata dalla fusione di Sud e Nord-Aviatiion, per la Francia; Deutsche Aerospace Ag (Dasa), erede di Messerschmitt e Dorner per la Germania; e Construciones Aeronauticas Sociedad Anónima (Casa) per la Spagna. I tedeschi, che vedono in Airbus il mezzo per riconquistare discretamente quello che considerano uno dei loro campi storici di eccellenza, non esitano a finanziare il progetto. Nel 1979 British Aerospace (Bae) è entrata a far parte di Airbus Industries. Il capitale è dunque ripartito fra Aerospatiale e Dasa (il 37,5% ciascuno) e Casa (il 5%). Per un quarto di secolo, nel campo della difesa, i britannici oscillano fra una strategia puramente nazionale, appiattita sugli Stati uniti, l’alleanza europea e un matrimonio con i tedeschi per marginalizzare Parigi. Francesi, tedeschi e spagnoli creano da soli, nel 2000, European Aeronautic Defense and Space Company (Eads), una holding che controlla Airbus e Astrium, società dalle quali Bae esce nel 2006.

Tuttavia, mentre la collaborazione all’interno di Airbus e di Arianespace funziona, nel campo dell’informatica è un disastro. L’idea di creare un’azienda leader europea nel campo dell’informatica nasce già nel 1966, con il lancio del piano Calcul e la creazione della Cii da parte della Francia. Dapprima Parigi propone – ma senza successo – un’alleanza all’olandese Philips e poi alla britannica Icl. Nell’estate 1971 cominciano le trattative con Siemens. Il 1 febbraio 1972 viene firmato un accordo a tre. La Cii e Siemens avranno il 42,5% e Philips il 15% di un gruppo che prende il nome di Unidata. Il suo obiettivo è di fare una concorrenza diretta a Ibm proponendo computer compatibili sia sul mercato europeo che su mercati terzi. Ma la luna di miele durerà poco. I nemici di Unidata sono tanti: Ibm, certo, ma anche Honeywell Bull3, senza parlare degli azionisti privati della Cii, i cui interessi sono divergenti4.

Nel 1974, gli avversari di Unidata si attivano per convincere il nuoco capo di Stato francese, Valery Giscard d’Estaing, che la Cii finirà fagocitata dalla tedesca Siemens, la quale si alleerà con l’olandese Philips. Preconizzano dunque un avvicinamento della Cii a Honeywell Bull. Come spiegare una simile scelta da parte di responsabili politici che si presentano come convinti europeisti? Dipende dalla storia. All’epoca, una parte delle élite francesi continua a considerare i tedeschi come avversari. Siemens e la Compagnie Générale d’électricité (Cge) fanno entrambe parte di un cartello per l’esportazione dalle regole stringenti (International Electrical Association5). La Cge teme che, attraverso Unidata, Siemens possa nuocere ai suoi interessi in Francia.

Il fallimento di Unidata avrà conseguenze pesanti sullo scacchiere industriale europeo. Siemens e la Cge dominano nel settore energetico, ferroviario, medico, delle telecomunicazioni e informatico. Sono campi nei quali i paesi europei avrebbero potuto, come hanno fatto con Airbus, costruire aziende leader in grado di contrastare gli statunitensi. Certo, negli anni 1980, Siemens è associata al progetto di centrale nucleare di terza generazione (reattore ad acqua pressurizzata europeo, Epr) attraverso una partecipazione minoritaria in una filiale di Framatome, l’antenata di Areva. Ma il primo Epr, collocato in Finlandia dal duo Siemens-Areva, si rivela un disastro finanziario e anche tecnologico. Nel 2009 Siemens viene esclusa dal capitale di Areva. L’ostilità sorda fra i due paesi si verifica nel 2001: Siemens, dopo una intensa lobby presso la Commissione europea, riesce a impedire la fusione di Schneider e Legran, i due gruppi francesi specializzati nel materiale elettrico. In compenso, non riuscirà a opporsi direttamente al piano di salvataggio di Alstom da parte del governo francese nel 2003.

Divergenze franco-tedesche

Ogni volta, gli Stati Uniti traggono vantaggio dall’antagonismo franco-tedesco. Negli anni 1980, il gruppo francese nazionalizzato Thompson preferisce vendere l’intera attività nel campo medico (la Compagnia generale di radiologia) a Ge. Nel 2014, ancora Ge acquisisce le attività di Alstom nel campo energetico. Come sempre gli statunitensi promettono di mantenere i posti di lavoro e di non spostare gli stabilimenti, mentre le fusioni tra gruppi europei si traducono automaticamente in riduzione di posti di lavoro, con l’obiettivo di aumentare le quote di mercato nazionalizzando le produzioni.

Un altro fattore, di natura ideologica, spiega i fallimenti delle collaborazioni industriali europee. Negli anni 1980, con i governi di Margareth Thatcher, primo ministro del Regno Unito, e Ronald Reagan, presidente degli Stati Uniti, si delinea un nuovo ciclo economico.È la rivincita del mercato sugli Stati: libero scambio, libera concorrenza, privatizzazioni, deregulation. Una duplice divergenza si manifesta allora tra Francia e Germania, tra due concezioni della costruzione europea. L’Europa potenza o l’Europa aperta. La politica industriale illustra questa contrapposizione. I francesi vogliono riprodurre, su scala europea, il modello applicato nel corso dei «trent’anni gloriosi»: creazione di aziende leader nazionali a capitale pubblico o privato nei grandi settori strategici, sulla base di ampi progetti diretti dallo Stato. Questa politica colbertiana, verticale, mirata, aveva permesso alla Francia di riprendersi molto presto grazie all’emergere di un capitalismo di Stato sostituitosi a uno sconsiderato capitalismo familiare durante la guerra.

La storia della Germania la porta a privilegiare un altro approccio. Le sue grandi imprese si erano sviluppate sotto Bismarck, fondandosi sulla seconda rivoluzione industriale, quella dell’elettricità. I potenti gruppi creati in tal modo erano stati obbligati a puntare sull’esportazione, poiché il paese non aveva colonie a disposizione. Risalgono a quel periodo il mercantilismo e lo spirito di eccellenza dell’industria tedesca, tuttora in auge. Per Berlino, il ruolo dello Stato non è quello di scegliere i settori nei quali investire, ma di fornire ai suoi grandi gruppi il miglior ambiente possibile (educazione, formazione, fiscalità) affinché contribuiscano alla prosperità nazionale. Certamente, questi gruppi si mettono al servizio di Adolf Hitler ma, dopo la sconfitta, i grandi imprenditori tedeschi trascorrono in carcere solo brevi periodi. Gli statunitensi favoriscono il loro ritorno alla guida di società i cui stabilimenti hanno subito meno danni rispetto alle abitazioni civili. Ai loro occhi è essenziale che Bonn si riprenda rapidamente di fronte al pericolo sovietico.

La Rfa riprende i principi della politica bismarckiana e dell’ordoliberismo6. Le banche, in particolare quelle regionali, finanziano le imprese, organizzano l’azionariato. Giocano fino in fondo il gioco del Mittelstand, centinaia di migliaia di medie imprese che praticano con successo una politica di nicchie industriali. Poiché le spese militari sono ridotte all’osso, le industrie civili ottengono grandi risorse. Nello stesso periodo, la Francia consacra una parte importante del suo budget alla difesa (guerre di Indocina e Algeria, forza di dissuasione). Si confrontano due approcci della politica industriale. La Germania privilegia i settori della seconda rivoluzione industriale. La Francia si interessa di più a quelli della terza: l’elettronica, l’informatica e oggi il digitale. L’espansione dell’ideologia neoliberista negli anni 1980 e l’influenza crescente dei britannici all’interno della Commissione europea marginalizzano progressivamente in un’Europa che, del resto, si sta allargando. La sconfitta si consuma alla fine degli anin 1980. François Mitterand tenterà per l’intero decennio di convincere gli europei a portare avanti una politica volenterosa nelle tecnologie della terza rivoluzione industriale, dai componenti all’informatica, dalla robotica all’elettronica di consumo – all’epoca dominate dai giapponesi – passando per l’elettronica professionale e le telecomunicazioni. Parigi propone la creazione di agenzie europee specializzate, l’apertura di mercati pubblici sulla base di una preferenza comunitaria, grandi progetti infrastrutturali comuni. A Bruxelles sono divisi. La direzione dell’industria si mostra favorevole alle tesi francesi; visceralmente ostile, invece, la direzione generale della concorrenza, che ha funzionari tedeschi e britannici.

Risultato: nella seconda metà degli anni 1980, le ambizioni sono riviste al ribasso; si privilegia la ricerca a monte, ma le cooperazioni industriali sono dimenticate. Man mano, nel corso degli anni, il peso dei neoliberisti aumenta e le ambizioni francesi si sgonfiano. L’Atto unico europeo, firmato nel 1986 per impulso del presidente della Commissione Jacques Delors, si pone l’obiettivo di «completare il mercato interno»: deregulation, privatizzazioni. Nel 1988, entra in vigore la direttiva sulla libera circolazione dei capitali. Insomma, la Francia si integra poco a poco nel nuovo ordine mondiale: quello del «consenso di Washington»7. Il ministero delle finanze, acquisito alle idee neoliberiste, sopravanza quello dell’industria.

Nel corso della sua breve permanenza a Matignon, nel 1991, Édith Cresson tentò di invertire il corso degli eventi proponendo una politica industriale europea e la creazione di una «comunità dell’elettronica»; ma senza successo. È il commissario tedesco incaricato del commercio estero e degli affari industriali, Martin Bangemann, a definire il credo che si imporrà: «ILa questione principale riguarda le condizioni che si devono presentare per rafforzare l’allocazione ottimale delle risorse da parte delle forze di mercato»8. La messa è finita. Passando dalle parole ai fatti, la Commissione europea nel 1991 si oppone all’acquisto della britannica De Havilland da parte di un consorzio franco-italiano (Aérospatiale, Alenia) che intendeva creare un polo europeo di aerei da trasporto regionali intorno ad Atr. De Havilland è acquistata dalla canadese Bombardier.

L’Europa altro non è, ormai, che un ampio mercato che si cerca di allargare al massimo perché è comandato dall’interesse strategico degli Stati Uniti e perché i tedeschi trovano il vantaggio di un hinterland9 ricostituito alle loro porte. I loro gruppi industriali vi si delocalizzano per produrre a basso costo componenti che assemblano poi nelle fabbriche dell’ovest della Germania.

Per Louis Gallois, presidente di Eads dal 2006 al 2012, la responsabilità di quest’assenza di politica industriale europea è condivisa. «I tedeschi non la volevano, ci spiega, perché era contraria alla loro ideologia ordoliberista e perché non ne avevano bisogno. Ma i francesi non hanno preteso l’attuazione con il vigore che sarebbe stato necessario. Inoltre, i successivi presidenti della Commissione, in particolare José Manuel Barroso, non erano interessati». Infine, a Bruxelles, la direzione della concorrenza è passata a poco a poco sotto il controllo della direzione giuridica, che ha un solo obiettivo: evitare di essere condannata dalla Corte di giustizia dell’Unione europea per mancato rispetto della concorrenza. Lungo gli anni, si è costruita una giurisprudenza eccessivamente vincolante che, secondo Gallois, «oggi impedirebbe di lanciare un progetto come Airbus».

Politica di commercio estero inesistente

L’assenza di strategia industriale è dovuta anche all’inesistenza di una vera politica di commercio estero. Nel 2002, gli Stati uniti potevano decidere nello spazio di sei mesi di imporre tasse del 700% sull’acciaio come rappresaglia per il dumping cinese. Gli europei, invece, hanno discusso per due anni per applicare alla fine tasse dieci volte più basse. Questo si può spiegare anche con i surplus commerciali della Germania, in particolare verso Cina e Stati uniti. Berlino, riuscita a imporre le proprie norme e i propri standard tecnologici nei settori che le interessano, non ha bisogno di una politica commerciale vincolante per l’Europa. Il settore automobilistico illustra in modo esemplare gli ostacoli a un’eventuale cooperazione. I tre gruppi tedeschi – Volkswagen, Daimler e Bmw – sono al tempo stesso concorrenti e partner: concorrenti perché vendono autovetture sugli stessi mercati, partner perché non esitano ad acquistare componenti in comune. Nel 2015 hanno comprato insieme il sistema di navigazione di Nokia destinato ai loro veicoli. In Francia, Renault e Peugeot rimangono rivali che non cooperano affatto.

La politica industriale, bandita dal vocabolario della Commissione negli anni 1990, è evocata nella «strategia di Lisbona» elaborata nel marzo 2000 e che mira a fare dell’Unione europea «l’economia della conoscenza più competitiva e più dinamica del mondo, capace di una crescita economica durevole accompagnata da un miglioramento quantitativo e qualitativo dell’occupazione e da una maggiore coesione sociale». Ma nel corso degli anni si susseguono formule vuote e pie intenzioni: «È necessario un insieme di misure per incoraggiare una produzione e un consumo più stabili rafforzando la competitività europea». Ma per quanto si faccia riferimento a una «strategia digitale per l’Europa» e a una «politica industriale nell’era della globalizzazione», in concreto non accade granché, perché l’ideologia rimane la stessa. La «strategia Lisbona» è un fallimento.

L’influenza della Francia nei servizi della Commissione e nel Parlamento europeo perde forza nel corso degli anni. Il suo apparato statale si piega con zelo alle regole comunitarie. Le élite non credono più al patriottismo industriale e non immaginano un patriottismo europeo. Per i grandi gruppi industriali francesi – in particolare quellli del Cac 40 -, l’Europa è solo più un mercato come un altro. Alcuni si vendono al miglior offerente o passano ai fondi di investimento anglosassoni10. Presa fra i due fuochi fra la posizione anglosassone e l’ordoliberismo tedesco, l’industria francese va in pezzi e, con quella, milioni di posti di lavoro.

Questi nuovi rapporti di forza si ritrovano in Airbus Group (il nuovo nome di Eads), ma anche in Ariane Espace, dove l’influenza dei francesi diminuisce. Come constatano privatamente alcuni alti funzionari, il nuovo proprietario di Airbus Group, il tedesco Thomas Enders, «si americanizza sempre più». Così, nel 2016 ha nominato direttore della ricerca e della tecnologia lo statunitense Paul Eremenko, già dirigente della Defense Advanced Research Projects Agency (Darpa), organismo di Stato che, negli Stati uniti, orienta tutti i crediti in materia di ricerca e sviluppo, in particolare nella difesa. Un po’ come se Boeing reclutasse un ex dirigente della direzione generale dell’esercito francese. Airbus Group, va ricordato, fabbrica i missili della forza di attacco francese.

Arianespace conosce la stessa evoluzione. Per la messa in orbita dei satelliti europei, i suoi vettori si trovano sistematicamente in competizione con quelli dei russi e degli statunitensi. I quali, con l’aiuto dei rispettivi governi, praticano prezzi stracciati. La Germania ha scelto la statunitense SpaceX per tre dei suoi satelliti. Certo, gli europei hanno finalmente portato a termine il programma Galileo, un servizio di geolocalizzazione per satelliti concorrente al Gps statunitense. Ma fra il lancio del progetto e la sua conclusione nel dicembre 2016 sono passati diciotto anni. Bilancio: almeno sei anni di ritardo, un budget di spesa raddoppiato e innumerevoli psicodrammi tra i paesi partecipanti, alcuni dei quali non insensibili alla pressioni statunitensi.

Nelle industrie della difesa, le cooperazioni hanno spesso avuto vita breve (è il caso del carro armato franco-tedesco). Negli aerei da combattimento, la Francia ha fatto il cavaliere solitario con il suo Rafàle, mentre tedeschi e britannici fabbricavano il loro Eurofighter. I due aerei si fanno concorrenza nell’export: alcuni paesi europei, fra i quali Regno unito, Italia e Paesi bassi, preferiscono addirittura acquistare l’F-35 statunitense, il jet militare più caro nella storia dell’aeronautica.

Ma il fallimento più cocente riguarda il digitale. Da trent’anni, con la tacita complicità della maggior parte degli Stati, Bruxelles blocca sistematicamente ogni progetto di creazione di aziende leader a livello europeo. Un atteggiamento ben diverso da quello dei cinesi e anche dei russi. Perché sviluppare un’offerta europea dal momento che i Gafam (Google, Apple, Facebook, Amazon, Microsoft) lo fanno per noi?

Ma si tratta di monopoli che sfuggono a ogni controllo nel settore dei dati sensibili. e sembra che finalmente Bruxelles prenda coscienza del pericolo. Da qui l’accusa di concorrenza sleale nei confronti di Google, avanzata dalla Commissione europea nel luglio 2016. Il gruppo statunitense, con base in Irlanda, godeva di un regime fiscale davvero vantaggioso. Ma questa denuncia – molto mediatizzata – è solo un atto isolato che Dublino, il cui regime fiscale è molto attraente per le imprese, ha vivamente deplorato. La tentazione di sottomettersi ai giganti statunitensi rimane grande. Alla fine di gennaio 2017, il ministro degli affari esteri danese, Anders Samuelsen, ha annunciato la nomiba di ambasciatori del suo paese presso i Gafam: «Queste imprese sono diventate nuove nazioni. In futuro, le nostre relazioni bilaterali con Google saranno altrettanto importanti di quelle che intratteniamo con la Grecia»11. Se questo atteggiamento – simile a quello dell’Irlanda che si vede più che mai come una portaerei delle multinazionali statunitensi – verrà confermato, sarà il senso stesso del progetto europeo a essere messo in discussione.

(Traduzione di Marinella Correggia)

[*] Giornalista, Autore di Alstom, scandale d’État, Fayard, Parigi, 2015.


Note:

  1. Cfr. Olivier Faure, Rémi Pauvros, Philippe Duron, Gilles Savary, Pierre Serne e Jean-Yves Petit, «Pour un “Airbus” du transport ferroviaire», Les Échos, Parigi, 5 maggio 2015.
  2. Cfr. Bernard Esambert, Une vie d’influence. Dans les coulisses de la Ve République, Flammarion, Parigi, 2013.
  3. Nel 1970 il gruppo statunitense ha sostituito General Electric nel capitale di Bull.
  4. I due azionisti privati della Cii sono la Compagnie générale d’électricité e Thomson. Cfr. Jacques Jublin e Jean.Michel Quatrepoint, French Ordinateurs. De l’affaire Bull à l’assassinat du plan Calcul, Alain Moreau, Parigi, 1976.
  5. Cfr. Alstom, scandale d’État, Fayard, Parigi, 2015.
  6. Si legga François Denord, Rachel Knaebel e Pierre Rimbert, «Ordoliberalismo tedesco, una gabbia di ferro per il Vecchio Continente», Le Monde diplomatique/il manifesto, agosto 2015.
  7. Si legga Mosés Naim, «Il “consenso di Washington” colto in fallo», Le Monde diplomatique/il manifesto, marzo 2000.
  8. Martin Bangemann, Les Clès de la politique industrielle en Europe, Éditions d’Organisation, Parigi, 1992.
  9. Hinterland e, per estensione, zona di influenza economica.
  10. Cft. Christakis Georgiou, Les Grandes Firmes françaises et l’Union européenne, Éditions du Croquant, Vulaines-sur-Seine, 2017.
  11. Politiken, Copenhagen, 26 gennaio 2017.

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