Quando un leader perde la credibilità

Prendo spunto da un articolo di Michele Prospero sul Manifesto del 18 dicembre (Pd, il problema non è più Renzi. È fermarlo) per tentare di analizzare un aspetto della politica dei giorni nostri particolarmente controverso e fastidioso, ovvero il leaderismo.

leaderismoMatteo Renzi ha impostato tutta la sua carriera politica sulla propria personalità e, come quasi tutti quelli che hanno fatto questa scelta, a un certo punto si è inceppato. Quella che all’inizio poteva sembrare simpatica spigliatezza giovanile è diventata arroganza, quello che appariva come dinamismo si è trasformato in frenesia e così via. Per chi arriva così facilmente ai massimi vertici del potere (e non voglio negare che per questo ci vogliano doti non comuni) è facile convincersi di avere qualcosa di speciale, un dono particolare (Berlusconi, l’unto del Signore, docet) e confondere per ammirazione incondizionata quello che è interesse personale. A questo Paese manca una vera e propria classe dirigente, quella che una volta veniva formata nelle segrete stanze delle federazioni dei partiti, nelle università e nei centri studi. I leader politici del passato saranno stati forse più “grigi”, ma di sicuro erano più preparati e sapevano come far girare la macchina della burocrazia statale.

Il problema inoltre non è quello del leader in sé, è quello di chi gli sta attorno perché se non riesce a fermare in tempo i “deliri di onnipotenza” del “capo”, alla lunga ne viene travolto. La caduta di Renzi si trasformerebbe nella caduta di tutti coloro che gli stanno attorno e, nel caso di un partito, di una grave crisi dello stesso. La corsa alla conferma del posto di governo non è solo attaccamento alla poltrona, è anche, soprattutto forse, volontà di trattenere qualcosa che si sente in procinto di perdere.

In parte il fenomeno del leaderismo è connaturato alla natura umana, in parte è indotto dai media e dall’uso spropositato che se ne fa per acquisire e mantenere consenso. In una politica che ormai è spettacolo e mercato elettorale è facile poi debordare in sovraesposizione mediatica, ottenendo l’effetto opposto di una buona campagna pubblicitaria. Un altro amplificatore del fenomeno è dato dal sistema elettorale. La scelta di dare all’Italia un sistema proporzionale fu determinata, in seno all’Assemblea Costituente, dalla volontà di impedire che si ripresentasse il rischio di un paese governato da un uomo solo, svincolato da qualsiasi forma di controllo (per intendersi, Mussolini). Gli stessi partiti, che si trovavano in spietata concorrenza fra loro, erano costretti a “stare fra la gente”, per cui l’elettore spesso conosceva personalmente quello che avrebbe potuto diventare, qualora eletto, il suo rappresentante nelle istituzioni. Con il sistema maggioritario, anzi con il tentativo di forzare l’Italia a un sistema maggioritario, che è estraneo alla nostra tradizione politica, la delega non viene più affidata a persona vicina e conosciuta, ma, saltando alcuni livelli, va direttamente al leader della coalizione, il quale viene designato come capo del governo, nonostante il nostro sistema preveda una procedura totalmente diversa. Francamente, se mi trovassi, oggi, a dover scegliere fra una coalizione di centrosinistra guidata da Renzi e una di destra guidata da Berlusconi, avrei serie difficoltà a recarmi ai votare.

Quando lavoravo nel marketing, uno dei principi fondamentali di cui tenere sempre conto era quello del rischio dell’utilizzo del cosiddetto testimonial nella pubblicità. Affidare l’immagine di un prodotto a un personaggio molto famoso aveva sicuramente un effetto positivo dal punto di vista del trasferimento della notorietà del testimone al marchio, ma aveva anche l’effetto perverso di legare la marca ai destini personali del personaggio. Il caso più eclatante fu quello di “grappa Piave, cuore del distillato”, che per anni si avvalse, con un discreto successo in termini di vendite, della collaborazione di Enzo Tortora, noto per trasmissioni che mettevano i sentimenti al centro dell’attenzione. Poi Enzo Tortora fu arrestato e le vendite della grappa crollarono senza più risalire. A nulla valse la provata innocenza del presentatore, ormai il danno di immagine c’era stato e non fu più possibile rimediare.

Renzi si era proposto – ed era stato creduto, almeno da una parte degli italiani – come un innovatore, un rottamatore della vecchia politica, l’uomo che avrebbe chiuso i conti con il passato. Poi, dai proclami, si è passati ai fatti e questi ci dicono che ha proseguito le politiche della vecchia DC (anzi della sua parte peggiore), che l’attaccamento alle poltrone è tipico della vecchia scuola, che i cosiddetti rottami non si sono tolti dai piedi, che la composizione dei governi continua a essere fatta con il manuale Cencelli (forse l’edizione online…) e non con la scelta di uomini competenti e idonei per la carica che devono ricoprire, ecc. ecc. in perfetto stile CAF (Craxi Andreotti Forlani, per chi se lo fosse dimenticato). Inoltre, Renzi ha voluto proporsi come un campione del neoliberismo, dando credito eccessivo alle istanze provenienti da una parte sola della società, quella imprenditoriale, a discapito delle esigenze della parte maggioritaria del popolo italiano. E questa scelta, più marcata rispetto a quella dei suoi predecessori, sta portando l’Italia nel baratro.

Da quello che sto leggendo in questi giorni, la situazione del PD è molto incerta e i calcoli politici che sono in atto sono abbastanza semplici da ipotizzare: Renzi può decidere quando andare a congresso e cercherà di farlo nel momento migliore per lui. I tempi tecnici per la convocazione del congresso PD sono di quattro mesi e nella politica contemporanea questo è un periodo di tempo lunghissimo, il che complica assai la scelta di quando dare le dimissioni da segretario. A partire da subito, la minoranza deve trovare un accordo, altrimenti è destinata a perdere in modo eclatante (dovrebbe, in teoria, trovare un unico candidato unitario su cui far convergere tutti i voti, ma questo sarà difficile).

La vittoria congressuale dell’ex presidente del Consiglio è inevitabile? Nonostante tutto, secondo me no, perché la storia ci insegna che la logica correntizia tipicamente democristiana che si è infiltrata nel Partito democratico ha lasciato spesso lo spazio a sorprese dell’ultimo minuto. Tutto dipenderà dai calcoli che verranno fatti e se, nel frattempo, emergerà un altro “cavallo” vincente. A quel punto il consenso si sposterà facilmente verso quest’ultimo.

Questa mia analisi sarebbe un più o meno bell’esercizio intellettuale fine a se stesso, se non fosse che il PD detiene in questo momento la maggioranza di governo nel mio Paese. Fino a che non andremo a votare nuovamente, la diatriba interna a questo partito condizionerà pesantemente tutta la politica italiana, soprattutto perché abbiamo un governo in forte continuità con il precedente ed è probabile che, per ragioni interne, la minoranza dem sia orientata a tenerlo in vita in attesa di tempi migliori. Che il popolo italiano si sia espresso in altro modo a questo punto – è ormai chiaro – non interessa più a nessuno di quelli seduti al governo e sarà necessario dare un’altra, ancora più pesante scoppola all’esecutivo, per far sentire la nostra voce. Le occasioni non mancheranno di certo: oltre alle elezioni, ci saranno i referendum sul lavoro, poi avremo la buona scuola e qualche tema ambientale su cui far sentire la nostra voce.

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