Votare non ha prezzo, per tutto il resto c’è Poletticard

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Il governo fotocopia Gentiloni, al netto delle vere o presunte liti con Renzi sul ruolo da assegnare a Maria Elena Boschi e Luca Lotti. Sembra che l’attuale presidente del Consiglio abbia cercato di puntare i piedi, tentando di convincere il predecessore che “salvare” il posto della Boschi fosse un grave errore politico (per maggiori dettagli: Francesco Bei, Renzi e Gentiloni, prima lite sul ruolo di Boschi e Lotti, La Stampa, 17 dicembre 2016).

Adesso, dopo che è sfumata definitivamente la possibilità – per Lotti – di ottenere la delega ai servizi segreti, il renziano doc vorrebbe avere quella al CIPE, con un grande percorso di coerenza che lo vedrebbe occuparsi di sport, editoria e programmazione economica, settori notoriamente “contigui”. In questa bega fra democristiani, tocca parteggiare per Gentiloni, che – pare – sarebbe intenzionato a dare un segnale forte affidando la gestione del Comitato Interministeriale per la Programmazione Economica a Claudio De Vincenti, ministro del neonato Ministero della coesione territoriale e del Mezzogiorno. In questo modo, almeno, si darebbe un segnale di comprensione del fortissimo segnale di disagio che è pervenuto dalle regioni meridionali, nelle quali tutti gli indicatori economici dimostrano una situazione ormai insostenibile, cercando di dare qualche contenuto a un ministero che, altrimenti, sarebbe l’ennesimo vuoto contenitore.

Paolo Gentiloni sembra non essere molto intenzionato a lasciare in fretta Palazzo Chigi (ricordiamolo, quarto inquilino consecutivo che non avrebbe alcun titolo per occuparlo dopo Monti, Enrico Letta e Renzi), dato che ha dichiarato di voler rimanere fino a quando avrà la maggioranza in Parlamento. Il quale Parlamento, dal canto suo, avrà tutto l’interesse per non accelerare troppo i lavori per arrivare a una legge elettorale quantomeno decente. Buona parte dei deputati e senatori deve ancora maturare l’anzianità necessaria per ottenere il vitalizio e sappiamo come questo fattore abbia sovente inciso nei processi decisionali dei nostri legislatori, nel lontano passato come ai giorni nostri.

Dal canto suo, il ministro Poletti ha lasciato capire quale sia il vero nemico di questo sistema di potere: la volontà popolare. I referendum sul lavoro hanno un esito scontato e il risultato del voto del 4 dicembre lascia intendere che non dovrebbe esserci il problema di raggiungere il quorum necessario perché la consultazione sia valida. Non è neanche il caso di fare previsioni sul risultato perché è scontato ed è facile prevedere percentuali a favore dell’abolizione della controriforma del lavoro di proporzioni inequivocabili. Insomma, verrebbero asfaltati… E Poletti ricorda che la legge sul referendum ne impedirebbe la convocazione troppo ravvicinata alle elezioni politiche (di conseguenza il referendum slitterebbe di un anno), ma dimentica che in casi eccezionali (vedi referendum sul nucleare del 1987) si è votato a pochissimi mesi di distanza dalle politiche (v. Alfonso Gianni, Perché si può votare sia per le politiche che al referendum, Il Manifesto, 16 dicembre 2016).

Il fatto poi che la CGIL sia la promotrice dei quesiti garantisce gli oppositori della riforma dal punto di vista organizzativo. Possiamo discutere all’infinito su temi quali la crisi del sindacato, sulle posizioni a volte non chiare prese dal maggiore sindacato italiano, ma non possiamo discutere sulla qualità dei suoi quadri e sulla loro capacità di iniziativa capillare su tutto il territorio del Paese.

Ma facciamo un po’ di conti. L’11 gennaio la Corte Costituzionale si riunirà per decidere sull’ammissibilità o meno dei quesiti referendari. Se li riterrà validi, il governo dovrà fissare una data per lo svolgimento del referendum in un giorno compreso fra il 15 aprile e il 15 giugno. Sempre a gennaio, ma il 24, sapremo se l’Italicum sarà dichiarato anticostituzionale (ritengo di sì, ma sembra che all’interno della Consulta ci siano orientamenti diversi). A questo punto, per rinviare il referendum il Parlamento dovrebbe approvare una legge di riforma del sistema elettorale in tempi brevissimi, cosa che mi sembra assai difficile data la posizione assunta dalle opposizioni che chiedono la condivisione dei contenuti della stessa e stante la spaccatura interna al PD – ma questa non è una novità. È quindi assai più probabile che si vada a votare per il referendum prima che per le politiche, anche se qualche sorpresa dobbiamo metterla in conto, visto il tipo di politici che ci troviamo.

In ogni caso, noi cittadini dovremo farci carico di tenere alto il livello di vigilanza, facendo sentire la nostra voce nelle piazze, sui quotidiani, in tutte le occasioni che ci si presenteranno. Il tentativo di imporre un sistema maggioritario in Italia è miseramente franato e occorre prendere atto che l’unico sistema per tenerlo in vita è quello di imporre dei premi di maggioranza abnormi e limitare la possibilità di scelta degli elettori. Questa logica è già stata bocciata una volta dalla Corte Costituzionale e, ne sono convinto, lo sarà ancora una seconda volta. Ma qui in ballo c’è molto di più. Gli effetti di quella che taluni chiamano deriva maggioritaria sono stati devastanti per il tessuto sociale del Paese, non solo per il suo assetto istituzionale ed è necessario riportare il Parlamento al suo ruolo originario di luogo di confronto e di conflitto fra tutte le istanze del popolo italiano. Bisogna ritornare al proporzionale puro, perché è impensabile che milioni di cittadini non possano avere una voce e contribuire a disegnare il futuro di questo Paese.

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