Diario di un ambasciatore sovietico a Londra

Da Le Monde Diplomatique, ottobre 2015

Uno straordinario documento sui retroscena della Seconda guerra mondiale

Possiamo immaginare la gioia dello storico Gabriel Gorodetsky quando è entrato in possesso delle 1.500 pagine di appunti manoscritti di Ivan Maisky, ambasciatore dell’Unione sovietica a Londra dal 1932 al 1943. Tutto concorreva a rendere eccezionale questo documento: l’importanza della missione diplomatica di Maisky, iniziata quando la probabile ascesa al potere di Hitler preannunciava la guerra in Europa; il contesto sovietico segnato dalle purghe che avrebbero decimato il corpo degli ufficiali e dei diplomatici; il personaggio stesso dell’ambasciatore, uomo di cultura e di carattere, militante rivoluzionario che non esitava a ricavarsi del tempo per redigere un componimento in versi.
Alla sua partenza nel 1932, Mosca auspica che Maisky si dimostri «un diplomatico più completo e un comunista meno ardente» rispetto al predecessore. In realtà si troverà a rivestire un ruolo di primo piano in quella che si profila una tragedia europea, suggerendo le sue idee e i suoi progetti diplomatici agli interlocutori britannici, attribuendoli poi a questi ultimi quando relaziona a Mosca… Moltiplicando i contatti, anche con la famiglia reale e il mondo della finanza, Maisky spera di sciogliere la reciproca diffidenza tra le due capitali, ognuna delle quali sospetta l’altra di volerla catapultare in un conflitto con la Germania. La scena in cui emerge la «scandalosa» complicità che inizia a prendere forma, il 16 novembre 1937, tra Winston Churchill e l’ambasciatore dell’Urss, mette in luce, per contrasto, quanto invece l’establishment britannico propenda nettamente per la Germania. L’anno seguente, gli accordi di Monaco, conclusi durante una conferenza europea alla quale l’Unione sovietica non era neanche stata invitata, sembrerebbero confermare i sospetti di Mosca. Il cambio di rotta strategico e il fulmine a ciel sereno del patto Molotov-Ribbentrop sono sopraggiunti come una naturale conseguenza.
Nei suoi commenti precisi, redatti con la chiarezza che contraddistingue uno dei migliori storici, Gorodetsky ricorda che il terrore staliniano dissuadeva i diplomatici sovietici dallo scrivere troppo, soprattutto se, negli anni 1930, si trattava di scrivere un diario. Le cronache di Maisky, su cui ha lavorato per quindici anni, si presentano come un documento prezioso e unico. Quello di un diplomatico sovietico che, pur temendo di essere richiamato in Urss per chiarimenti e rischiando di essere giustiziato o internato come numerosi suoi colleghi (il 62% dei diplomatici sovietici è stato vittima di purghe), ha cercato ostinatamente di conciliare gli interessi del proprio paese con quelli di una delle principali capitali occidentali. Leggendo il suo diario, si capisce quanto sia stato difficile…

Churchill: «Una Russia indebolita costituisce un immenso pericolo»

16 novembre 1937

Oskar Kokoschka – Ambassador Ivan Maisky 1942-1943

Oggi, Agniya [sua moglie] e io siamo andati al «banchetto di stato» offerto da Giorgio VI in onore del re Leopoldo del Belgio, arrivato per una visita di quattro giorni. È stato un banchetto come altri. Centottanta invitati, la famiglia reale al gran completo, i membri del governo, gli ambasciatori (ma non gli emissari) e una profusione di notabili britannici. Abbiamo mangiato in piatti d’oro con posate d’oro. La cena, diversa dalle normali cene inglesi, era deliziosa (sembra che il re abbia un cuoco francese). Due dozzine di suonatori di cornamusa scozzesi hanno fatto irruzione nella sala durante il pasto e camminato lentamente e a più riprese attorno ai tavoli, riempiendo le volte del palazzo con la loro musica semi-barbara. Mi piace questa musica. C’è qualcosa delle montagne e delle foreste scozzesi, dell’eco dei secoli passati e della storia primitiva degli uomini […]

Leopoldo ha conversato con Chaberlain, Hoare1, Montagu Norman (governatore della Banca d’Inghilterra) e, tra gli ambasciatori, con Grandi, Ribbentrop e Corbin2. Nutriva, in tutta evidenza, un vivo interesse per l’«aggressore» e per il collaboratore di quest’ultimo.

Comprensibilmente, non mi sono stati riservati grandi onori: l’Urss non è molto in voga negli ultimi tempi, soprattutto tra le alte sfere del Partito conservatore. Neanche l’ambasciatore giapponese Yoshida, che rimaneva in un angolo, era stato invitato a presentare i propri ossequi ai re. E non stupisce, dal momento che i cannoni giapponesi stanno schiacciando il capitale e il prestigio britannici in Cina!

Stanco di questo spettacolo soporifero, stavo per eclissarmi verso i saloni contigui, sicuro di trovarvi molte persone interessanti di mia conoscenza, quando una brusca agitazione ha attraversato la sala d’onore. Ho alzato gli occhi e constatato quanto accadeva. Lord Cromer, che emergeva da una sala vicina, accompagnava Churchill3 per presentarlo a Leopoldo. Giorgio li raggiunse senza attardarsi. Una lunga e animata conversazione coinvolse i tre uomini, ritmata dalle gesticolazioni impetuose di Churchill e i tonanti scoppi di risa dei due monarchi. Poi l’udienza terminò. Churchill si allontanò dai due reali e si scontrò faccia a faccia con Ribbentrop, che non si fece pregare per fare quattro chiacchiere con il «mangiatore di tedeschi». Prontamente, attorno a loro si accalcò un gruppo di persone. Non potevo sentire di cosa stessero parlando, ma da lontano vedevo Ribbentrop pontificare con aria cupa, come suo solito, mentre Churchill replicava a suon di battute, scatenando l’ilarità del suo pubblico. Alla fine, Churchill parve disinteressarsi dalla discussione, girò i tacchi e incrociò il mio sguardo. Allora avvenne la seguente cosa: in maniera che tutti potessero vedere e sotto gli occhi dei due re, Churchill attraversò la sala nella mia direzione e mi elargì una vigorosa stretta di mano. Ne seguì tra noi una discussione piena di brio, a metà della quale il re Giorgio si avvicinò per dire due parole a Churchill. Si sarebbe detto che Giorgio, indubbiamente turbato dall’inesplicabile vicinanza di Churchill con l’«ambasciatore bolscevico», fosse giunto in suo soccorso per strapparlo alle grinfie del «diavolo di Mosca». Feci un passo indietro e attesi di vedere cosa sarebbe successo. Alla fine del conciliabolo con Giorgio, Churchill tornò verso di me e riprese la conversazione da dove l’avevamo interrotta. Gli aristocratici dorati intorno a noi sembravano un tantino scioccati.

Cos’aveva da dirmi Churchill?

Winston Churchill e Ivan Maisky

Mi annunciò di punto in bianco che considerava il il «patto anticomunista» [il patto anti-Komintern concluso nel novembre 1936 tra la Germania e il Giappone] come una manovra diretta in primo luogo contro l’impero britannico e solo in secondo luogo contro l’Unione sovietica. Attribuisce un’importanza cruciale a quest’accordo tra aggressori, non tanto per il presente, quanto piuttosto per il futuro. Ai suoi occhi la Germania è il nemico prioritario. «Il compito principale di tutti noi che difendiamo la pace, proseguì Churchill, è di aiutarci a vicenda. Altrimenti saremo perduti. Una Russia indebolita costituisce un immenso pericolo per la causa della pace e per l’inviolabilità del nostro impero. Abbiamo bisogno di una Russia forte, molto forte». Poi, abbassando la voce come per confidarmi un segreto, Churchill iniziò a interrogarmi: cosa capita in Urss? Gli eventi recenti non avevano indebolito il nostro esercito? Non avevano intaccato la nostra capacità di tener testa alle pressioni di Giappone e Germania?

«Posso risponderle con una domanda?», replicai prima di proseguire: «Se un generale fellone a capo di un corpo d’armata è sostituito da un generale onesto e affidabile, il nostro esercito ne esce indebolito o rafforzato? Se il direttore di una grande fabbrica di armi giudicato colpevole di sabotaggio viene sostituito da un direttore onesto e affidabile, la nostra industria militare ne esce indebolita o rafforzata?». Continuai ancora un po’ sullo stesso registro, ridicolizzando la fiaba per bambini, molto popolare qui, dell’impatto delle «purghe» sulla condizione generale dell’Urss.

Churchill mi ascoltò con grandissima attenzione, scuotendo di tanto in tanto la testa con diffidenza. Quando ebbi finito, mi disse: «È molto confortante ascoltare queste parole. Finché la Russia si rafforza, invece di indebolirsi, allora tutto va bene. Ripeto: abbiamo tutti bisogno di una Russia forte, ne abbiamo terribilmente bisogno!» Fece una piccola pausa e riprese: «Quel Trotski è un perfetto diavolo. È una forza distruttrice, e non creatrice. Sono completamente dalla parte di Stalin».

Gli domandai cosa pensasse della prossima visita a Berlino di Halifax [ministro degli esteri britannico]. Fece una smorfia ironica e rispose che considerava questo viaggio un errore. Non ne uscirà niente di buono; i tedeschi storceranno ancora una volta il naso, interpretando quest’iniziativa come un segnale di debolezza dell’Inghilterra. Ma, almeno, Halifax è un uomo onesto che non cederà mai a piani «vergognosi», come tradire la Cecoslovacchia o dare carta bianca alla Germania sul suo fianco orientale. Tuttavia, non avrebbero mai dovuto compromettersi con questa visita!

Churchill mi strinse la mano e mi assicurò che ci saremmo dovuti incontrare più spesso.

La capitolazione di Monaco e le sue conseguenze

30 settembre 1938

Ivan Maisky

I sinistri presentimenti dei dirigenti laburisti si sono concretizzati. Ieri non sono riuscito ad andare a letto prima delle quattro del mattino, restando seduto ad ascoltare la radio. Alle 2.45 hanno annunciato che era stato raggiunto un accordo a Monaco e che la pace era salva. Ma che accordo! E che pace! Chamberlain e [il presidente del Consiglio francese] Daladier hanno completamente capitolato. La conferenza dei Quattro ha accettato l’ultimatum di Bad Godesberg nella sua totalità, se si esclude qualche aggiustamento minore e trascurabile. La «vittoria» strappata da britannici e francesi consisterebbe nel trasferimento dei Sudeti alla Germania non il 1° ma il 10 ottobre. Un successo! […]

Mi sono svegliato al mattino con un forte mal di testa e la prima cosa che ho pensato è che dovevo render visita a Masaryk [ambasciatore cecoslovacco a Londra dal 1935 al 1938].

Quando sono entrato nella sua sala di rappresentanza, non c’era nessuno. Un minuto più tardi, ho sentito dei rumori di passi giù dalle scale e il mio ospite è comparso. C’era qualcosa di strano e innaturale nella sua silhouette filiforme e muscolosa. Come se si fosse congelato di colpo e avesse perso la sua solita agilità. Masaryk lasciò vagare lo sguardo fino a me e poi tentò educatamente di avviare una conversazione, come in una chiacchierata tra vicini.

«Oggi c’è proprio un tempo meraviglioso, non è vero?».

«Lasci stare il tempo, risposi io con un gesto involontario di irritazione della mano. Non sono venuto qui per questo. Sono venuto per esprimere la mia profonda compassione per il vostro popolo in questo momento di estrema difficoltà e la mia viva indignazione per il vergognoso comportamento della Gran Bretagna e della Francia!»

Ora sembrava che la corrente fosse improvvisamente tornata a circolare nei circuiti del corpo dinoccolato di Masaryk. Il ghiaccio si sciolse tutto d’un tratto. Il gelo fu seguito dal fremito. Scosse le anche in maniera piuttosto comica e, di punto in bianco, mi cadde fra le braccia singhiozzando amaramente. Ero disorientato e sconcertato dal suo comportamento. Sempre abbracciandomi, Masaryk balbettò tra le lacrime:

«Mi hanno ridotto in schiavitù e venduto ai tedeschi, come si vendevano i negri per farne degli schiavi in America».

Poco alla volta riuscì a calmarsi e mi presentò le scuse per la sua debolezza. Gli strinsi calorosamente la mano.

[Dopo aver invaso la Cecoslovacchia, Hitler minaccia la Polonia. Londra, Parigi e Mosca moltiplicano incontri e progetti per opporsi quelli di Berlino. Senza risultati].

4 agosto 1939

Una pagina del diario di Ivan Maisky

I membri della delegazione militare [britannica] in partenza per Mosca – l’ammiraglio Drax (capo missione), il maresciallo dell’aeronautica Burnett e il maggiore generale Heywood – sono venuti a pranzo da me. I miei invitati hanno mostrato grande discrezione, preferendo discutere di argomenti cruciali come l’avvio della stagione della caccia alla pernice, di cui avrebbero senz’altro approfittato nel soggiorno a Mosca.

Durante la colazione, sono venuto a conoscenza di un’informazione che mi ha allarmato seriamente. Quando ho chiesto a Drax, seduto alla mia destra, perché la delegazione non facesse il viaggio in aereo per risparmiare tempo, Drax si è morso le labbra e ha risposto: «Beh, siamo una ventina con molti bagagli e l’aereo non sarebbe comodo…». Non trovando soddisfacente la sua spiegazione, ho insistito: «In questo caso, perché non viaggiare a bordo di una nave da guerra, un incrociatore rapido per esempio? Arrivereste più in fretta a Leningrado e con molto stile».

Drax si succhiò nuovamente le labbra, come perso nei suoi pensieri e disse: «Dovremmo cacciare venti ufficiali dalle loro cabine… Sarebbe una situazione imbarazzante». Non credo alle mie orecchie. Che nobili sentimenti e che modi pieni di tatto!

L’ammiraglio cercò comunque di farmi contento, assicurandomi che la delegazione militare aveva noleggiato una nave speciale, il City of London, che avrebbe imbarcato i suoi uomini insieme alla missione francese, fino a Leningrado. Korzh [primo segretario presso l’ambasciata] intervenne nella conversazione, facendo notare a bruciapelo che il proprietario della barca, quel mattino stesso, gli aveva confessato che la sua potenza massima era di 13 nodi. Lanciai uno sguardo stupito a Drax e eslamai: «È possibile?» Borbottò un po’ a disagio: «È stato l’Ufficio per il commercio ad affittare la nave, non conosco i dettagli».

Così, quindi, militari inglesi e francesi partono in missione per Mosca a bordo di una vecchia bagnarola! Un’imbarcazione mercantile, stando alla sua velocità. E questo nel momento della storia d’Europa in cui la terra comincia a bruciare sotto i piedi. Incredibile! Il governo britannico desidera davvero raggiungere un accordo? Sono sempre più convinto che Chamberlain stia facendo il doppio gioco: non cerca un patto tripartito, ma delle trattative in vista di un patto, in modo da tutelarsi con un asso nella manica che gli permetta di negoziare agevolmente un accomodamento con Hitler […]

Lo scoppio della guerra a ovest

1°settembre 1939

Questa mattina presto, la Germania ha attaccato la Polonia senza il minimo preavviso e ha cominciato a bombardare le città polacche. L’esercito e l’aviazione polacchi stanno dimostrando una resistenza accanita. La guerra è dunque cominciata […]

Il Parlamento si è riunito alle 18 […] Chamberlain, che sembrava terribilmente depresso, ha confessato con la voce rotta dall’angoscia che, diciotto mesi prima, aveva pregato di non doversi assumere la responsabilità di una dichiarazione di guerra, ma che ora temeva di non poterlo più evitare. Tuttavia, la vera responsabilità di quest’entrata in guerra non pesava sul Primo ministro, quanto piuttosto «sulle spalle di un uomo – il cancelliere tedesco», che non ha esitato a proiettare l’umanità in un abisso di sofferenza immensa con l’unico scopo di «servire i suoi ciechi interessi». Di tanto in tanto, Chamberlain tentava di battere il pugno sulla famosa «scatola» del pulpito dell’oratore. Ma ogni gesto teatrale sembrava costargli degli sforzi e si accompagnava a una tale disperazione nei suoi occhi, nella sua voce e nei suoi movimenti che non lo si poteva guardare senza sentirsi male. Questo è l’uomo che dirige l’Impero britannico nel momento più critico della sua storia! Non è il capo di stato dell’Impero britannico, ma il suo becchino! […]

Salvo un miracolo dell’ultimo minuto, la Gran Bretagna entrerà in guerra contro la Germania nelle prossime quarantotto ore.

3 settembre 1939

Oggi abbiamo assistito all’epilogo: il Primo ministro si è pronunciato in radio alle 11.15 dichiarando che a partire da quel momento la Gran Bretagna era in guerra contro la Germania […]

A metà giornata, mi sono recato al Parlamento, dopo che Chamberlain aveva già iniziato il suo discorso. Il colto incupito, emaciato. La voce sconsolata, rotta. Gesti amari di disperazione. Un uomo annichilito, allo stremo delle forze. A sua discolpa, ha ammesso che la catastrofe l’aveva colto di sorpresa. «Questo è un giorno triste per tutti noi, dice, e soprattutto per me. Tutto quello per cui ho lavorato, tutto ciò in cui ho sperato, tutto quello in cui ho creduto durante la mia vita politica è rovinosamente crollato».

Ascoltandolo dalla mia sedia, pensavo: «Ecco il dirigente di un grande impero nel giorno cruciale della sua esistenza. Un vecchio ombrello zuppo d’acqua che sgocciola da tutte le parti. Chi può salvarlo? Se Chamberlain rimane primo ministro a lungo, l’impero è finito».

17 giugno 1940

La Francia è capitolata […] Cosa farà ora l’Inghilterra? Chiaramente, si batterà da sola. Non ha altre possibilità. Mi ricordo quel che mi diceva Randolph Churchill [giornalista, militare, uomo politico, figlio di Winston Churchill] un paio di settimane fa: «Anche se dovesse accadere il peggio del peggio, la Francia può sopravvivere senza il suo impero. La sua economia è tale che, anche perdendo le sue colonie, sarebbe capace di cavarsela come potenza di secondo rango, un po’ come la Svezia ma su larga scala. L’Inghilterra si trova in una posizione diversa: se perdiamo il nostro impero, diventeremo non una potenza di secondo rango, ma di decimo rango. Non abbiamo niente. Moriremo di fame. Non abbiamo quindi altra possibilità che batterci fino alla fine».

5 luglio 1940

Visita di Pierre Cot [ministro dell’aeronautica sotto il Fronte popolare], lasciato sulle coste britanniche dal corso degli eventi […] Si stabilirà a Londra per creare un comitato francese informale di sinistra, pubblicherà qui il suo giornale e manterrà i contatti con la Francia […] Cot ha un punto di vista piuttosto preciso sulla sconfitta francese: molto semplicemente gli alti graduati (strettamente legati a un’élite politica degenere) non avevano intenzione di battersi. Inoltre, se la guerra fosse stata condotta seguendo modalità più o meno «normali» – ossia sotto la protezione della linea Maginot, che ha letteralmente ipnotizzato le autorità militari francesi -, forse Weygand e gli altri generali avrebbero potuto fare il loro lavoro. Ma, dopo lo sfondamento tedesco, quando è emerso senz’ombra di dubbio che solo una guerra del popolo avrebbe salvato la Francia, gli alti graduati hanno perso ogni motivazione per battesi. Non sorprende affatto. Ma, dopotutto, chi è questo Weygand? È fondamentalmente un fascista, ma un fascista prodotto dalla Francia – o, per meglio dire, dalle sfumature cattoliche. Molti definiscono Weygand un traditore. Cot non li contraddice, ma non possiede abbastanza prove per essere pienamente convinto di questa accusa. In ogni caso, quand’anche Weygand non fosse un traditore, ma solo un fascista, come aspettarsi da parte sua il minimo entusiasmo nei confronti di una «guerra del popolo»? Molti dei grandi generali sono reazionari, spesso fascisti o simpatizzanti dei fascisti. Per Cot, è probabile che Weygand fosse guidato da una sola «idea generale» dopo lo sfondamento tedesco a Sedan: cessare i combattimenti contro la Germania e approfittare della nuova situazione per abolire la III Repubblica e istituire un regime di tipo fascista.

In realtà, dopo Dunkerque, non c’è stata occasione in cui l’esercito francese abbia veramente combattuto. Nella Somma è stato fatto un timido tentativo di resistenza ma, dopo il crollo, è subito iniziato il ritiro delle truppe in aperta campagna, appena mascherato da finti contrattacchi. Non sono stati fatti saltare ponti, né fabbriche, né ferrovie, ecc. Si sono limitati a scavare trincee e costruire fortificazioni, anche in luoghi strategici (sulla Senna, la Marna, la Loria, ecc.). Sono stati lasciati in mano ai tedeschi enormi quantitativi di armi e munizioni, con cui l’esercito francese avrebbe potuto resistere per mesi. Non è stata intrapresa alcuna azione sulla frontiera italiana, che pure offriva eccellenti opportunità. Perché? Semplicemente perché, dopo lo sfondamento tedesco, le «duecento famiglie» e gli alti graduati non avevano la minima intenzione di combattere. Hanno temporeggiato, aspettando il momento opportuno per avviare dei negoziati con la Germania.

L’Unione sovietica invoca l’apertura di un secondo fronte

[Il 21 giugno 1941, la Germania attacca l’Unione sovietica. I primi successi dell’esercito nazista sono fulminei. Con la Francia sconfitta e gli Stati uniti non ancora in guerra, Stalin si volge verso Churchill e gli chiede in maniera pressante l’apertura di un secondo fronte in Europa. È la missione di Maisky]

4 settembre 1941

Anthony Eden e Ivan Maisky

Sono uscito di casa un quarto d’ora prima dell’appuntamento. La luna brillava sfavillante. Nuvole dalle forme irreali correvano da ovest verso est. Quando oscurarono la luna e i loro bordi si tinsero di rosso e nero, la scena intera assunse un’aria funebre e minacciosa. Come se il mondo fosse alla vigilia della sua distruzione. Camminando nelle strade che mi erano familiari, pensavo: «Tra pochi minuti ci troveremo di fronte a un momento importante della storia, forse addirittura decisivo, carico di conseguenze gravissime. Sarò all’altezza? Ho sufficientemente forza, energia, scaltrezza, agilità e vivacità mentale per rivestire il mio ruolo con le migliori chance di successo per l’Urss e per l’intera umanità?».

Con lo spirito tormentato e teso come una molla, entrai nel vestibolo della celebre dimora. Tuttavia, i piccoli dettagli prosaici dell’esistenza riuscirono a riportarmi prontamente con i piedi per terra. Il portiere, un inglese in livrea ordinaria, si inchinò e mi prese il cappello. Un secondo portiere, impossibile distinguerlo dal primo, mi guidò per un corridoio mal illuminato, lungo il quale andavano e venivano giovani di fretta, probabilmente i segretari e i collaboratori del primo ministro. Fui invitato ad accomodarmi vicino a un tavolino mentre annunciavano il mio arrivo. Questa abitudine, che un’esperienza di lunghi anni mi aveva reso tanto familiare, mi fece l’effetto di una secchiata d’acqua fredda sul mio animo rovente.

Fui scortato nell’ufficio del primo ministro o, per essere precisi, nella sala riunioni del governo. Churchill, in smoking, il suo solito sigaro tra i denti, era seduto al centro di una lunga fila di sedie vuote a fianco di un tavolo coperto da una tovaglia verde. Al suo fianco, in abito grigio scuro dal tessuto leggero, si trovava Anthony Eden [ministro degli esteri]. Churchill alzò su di me uno sguardo diffidente, tirò una boccata dal suo sigaro e abbaiò come un bulldog: «Mi porta buone notizie?»

«Temo di no», risposi, porgendogli il messaggio di Stalin. Sfilò la lettera dalla busta, indossò gli occhiali e cominciò attentamente a leggere. Dopo aver terminato la prima pagina, la passò a Eden. Seduto accanto al primo ministro, mantenni il silenzio e osservai la sua espressione. Quando Churchill ebbe finito la lettura, non c’era più alcun dubbio che il messaggio di Stalin lo avesse impressionato.

Presi la parola: «Ora, signor Churchill, lei e il suo governo sapete cosa succede. Da undici settimane ormai resistiamo da soli al terribile attacco della macchina da guerra tedesca. I tedeschi hanno schierato fino a trecento divisioni sul nostro fronte. Nessuno ci aiuta in questa lotta. La situazione è diventata difficile e pericolosa. Non è troppo tardi per cambiarla. Ma per riuscirci è fondamentale fare rapidamente e risolutamente quello che dice Stalin. Se non vengono adottati immediatamente i provvedimenti opportuni, l’occasione potrebbe andare persa. Se prenderete le misure ferme e decise necessarie per assicurare all’Urss l’aiuto di cui ha bisogno, allora la guerra finirà, l’hitlerismo sarà annientato e si aprirà l’opportunità per uno sviluppo libero e progressista dell’umanità. Se non fornirete l’aiuto di cui abbiamo bisogno, l’Urss si esporrà al rischio di una sconfitta, con tutte le conseguenze che ne derivano».

Il primo ministro ascoltò il mio discorso succhiando il suo sigaro, accompagnando le mie parole qui e là con un gesto o una smorfia, mentre Eden rimaneva immerso nella missiva di Stalin e scarabocchiava degli appunti a margine.

Poi Churchill scagliò la sua risposta: «Non ho alcun dubbio, esclamò, che Hitler porti avanti la sua vecchia politica che consiste nel battere i suoi nemici uno dopo l’altro… Sarei pronto a sacrificare la vita di cinquantamila inglesi se potessi in questo modo eliminare anche solo venti divisioni tedesche sul vostro fronte!» Purtroppo, aggiunse, l’Inghilterra attualmente non dispone della forza necessaria ad aprire un fronte in Francia: «Il canale della Manica, che impedisce alla Germania di scagliarsi sull’Inghilterra, impedisce anche all’Inghilterra di scagliarsi sulla Francia occupata».

Churchill considera che l’apertura di un secondo fronte nei Balcani non sia contemplata per il momento. I britannici mancano tanto di truppe, quanto di mezzi aerei e navali. «Immagini, ruggisce Churchill, che in primavera ci abbiamo messo sei settimane per trasferire tre o quattro divisioni dall’Egitto fino alla Grecia. E questo quando la Grecia è nostra alleata, non nostra nemica! No, no! Non possiamo buttarci in una sconfitta certa, né in Francia, né nei Balcani!»

Vedendo che era inutile approfondire oltre la questione del secondo fronte, ripiegai sul mio argomento di riserva, insistendo con enfasi sull’importanza di un aiuto materiale. Questa volta, il primo ministro si mostrò più affabile, come mi ero aspettato. Promise di considerare con la migliore volontà del mondo la richiesta di Stalin di carri e aerei e di darmi presto una risposta definitiva. «Non aspettatevi troppo da noi!, mi avvertì Churchill. Anche noi siamo a corto di armi. più di un milione di soldati britannici è ancora oggi disarmeto» […]

«Non voglio illudervi, disse ancora Churchill. Sarò franco.Non saremo in grado di assicurarvi aiuti sostanziali prima dell’inverno, aprendo un secondo fronte o fornendovi materiale in abbondanza. Tutto quel che siamo in grado di offrirvi per il momento – carri, aerei, ecc. – è cosa da poco rispetto ai vostri bisogni. È doloroso per me dirle questo, ma è la verità. Domani, sarà un’altra questione. Nel 1942, la situazione cambierà. Gli americani e noi stessi, potremo darvi molto di più, nel 1942. Ma per ora…» E Churchill concluse con un mezzo sorriso: «Solo Dio, nel quale voi non credete, può aiutarvi nel corso delle prossime sei o sette settimane. In ogni caso, quand’anche noi inviassimo subito carri e aerei, non arriveranno a destinazione prima dell’inverno» […]

Era mezzanotte meno un quarto quando mi congedai dal primo ministro. Il nostro incontro era durato quasi due ore. La luna era calata e le strade di Londra, immerse nell’oscurità, risuonavano di un silenzio inquietante.

All’indomani di Stalingrado

5 febbraio 1943

Come ha reagito alle nostre vittorie la Gran Bretagna? Impossibile rispondere a questa domanda in una o due parole, tanto appare complessa e contraddittoria la reazione inglese ai successi dell’Armata rossa. Tenterò di tirare le fila delle mie impressioni.

Dopo le dure prove della scorsa estate, la nostra capacità di salvaguardare la nostra potenza militare ha sorpreso tutti. Ecco perché, in Inghilterra, la prima e principale reazione provocata dalle nostre vittorie è stata di stupore. Seguita da ammirazione per il popolo sovietico, per l’Armata rossa e anche per lo stesso compagno Stalin. […] Quando appare sugli schermi suscita sempre grandi acclamazioni, ben più rumorose di quelle riservate a Churchill o al re. Frank Owen4 l’altro giorno mi ha detto (essendo entrato nell’esercito) che Stalin è l’idolo e la speranza dei soldati. Quando un soldato è scontento per qualche ragione, arrabbiato per l’offesa di un graduato o risentito per un ordine ricevuto, la sua reazione può essere tanto colorita quanto rivelatrice. Alzando una mano minacciosa, esclama: «Aspettate solo che arrivi lo zio Jo! Quel giorno faremo i conti!».

Più si sale sulla piramide sociale e più quest’ammirazione si mescola con altri sentimenti, di natura ancora più corrosiva. Le classi dirigenti sono scontente, o piuttosto preoccupate: i bolscevichi non diventeranno troppo forti? Il prestigio dell’Urss e quello dell’Armata rossa troppo ingombranti? I rischi di una «bolscevizzazione dell’Europa» troppo alti? Maggiore sarà il successo ottenuto dai militari sovietici e maggiori saranno i timori delle élite dirigenti.

Questi sentimenti contraddittori che animano la classe dirigente, trovano un’eco particolare all’interno dei due principali gruppi che la rappresentano e che, riassumendo, potremmo chiarare churchilliani e chamberlainiani.

[Nel febbraio 1953, poco prima della morte di Stalin, Maisky viene arrestato e accusato di spionaggio; i suoi diari sono confiscati. Liberato e poi amnistiato due anni dopo, redige le sue Memorie e muore nel 1975 all’età di 91 anni].

(Traduzione di Alice Campetti)

  1. Neville Chamberlain è all’epoca primo ministro, Samuel Hoare ministro dell’interno.
  2. Rispettivamente ambasciatori di Italia, Germania e Francia a Londra. Alcuni mesi più tardi, Ribbentrop diventerà ministro degli esteri del governo hitleriano.
  3. Strenuo oppositore alla politica di distensione con la Germania all’interno del Partito conservatore, Winston Churchill è, in quella fase, messo ai margini del potere.
  4. Direttore di Evening Standard dal 1938 al 1941, tenente colonnello nel Royal armoured corps rea il 1942 e il 1943.

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