La foglia di fico del bonus di 500 euro per i giovani

Per me è chiaro: la proposta di erogare la somma di 500 euro ai giovani che compiono diciott’anni perché li spendano in attività culturali, altro non è se non una manovra propagandistica, forse non a fini elettorali immediati, ma di sicuro per accreditare l’immagine di un governo moderno, rivolto al futuro, orientato ai giovani, cosa che in realtà non è.

Il bonus giovani consiste in una card elettronica accreditata della cifra di cui sopra che i neo-maggiorenni potranno spendere per attività culturali. E qui, nella mancata definizione di attività culturali, sta la mia prima perplessità, perché, a mio avviso, occorre distinguere fra attività culturali e attività ricreative o attinenti al mondo dello spettacolo.

Faccio un esempio. La card può essere spesa al cinema, ma non viene specificato il tipo di film che si può andare a vedere. A me Checco Zalone piace moltissimo (quando andai a vedere “Che bella giornata”, quasi mi sentii male per il troppo ridere), ma ho delle difficoltà a definirlo prodotto culturale e penso che questa affermazione potrebbe essere sottoscritta dallo stesso comico pugliese. E così via per gli spettacoli dal vivo: dipende da cosa si va a vedere.

In secondo luogo, vi sono delle discriminazioni. Oltre a escludere dal bonus i diciottenni non italiani, il sistema prescelto favorisce, e molto, i giovani residenti nelle grandi città, dove l’offerta di musei, concerti, film, spettacolo in generale, è elevatissima, rispetto ai giovani che vivono nei piccoli centri dove, a volte, non c’è nemmeno il cinematografo. Per poter usufruire del bonus, i ragazzi di campagna dovrebbero spostarsi, a volte anche di molti chilometri.

Ma in fin dei conti questi sono dettagli marginali. Anzi un po’ di ossigeno al settore cultura e spettacolo non è di per sé una cattiva iniziativa. L’aspetto grave è che, in questo caso, se vogliamo applicare delle categorie concettuali dell’economia, siamo di fronte a trasferimenti e non a investimenti. Lo Stato trasferisce dei fondi che ognuno può spendere come gli pare, ma non mette mano a un qualsiasi progetto che possa dare risultati duraturi. Gli altri paesi europei, invece, hanno adottato politiche a favore dei giovani molto più diversificate e di lungo respiro. E hanno messo mano al portafoglio investendo cifre assai più consistenti.

L’Italia spenderà, per questa operazione, 285 milioni e mezzo. Come lo abbiamo appena visto. Germania, Austria, Olanda e Norvegia danno 100 euro al mese ai diciottenni, ma questo rientra nelle spese di welfare in quanto l’erogazione del bonus bebè è prevista fino al raggiungimento della maggiore età. Non si tratta quindi di grandezze comparabili anche se in questo caso i governi sono molto più generosi, visto che erogano 1200 euro contro 500.

Quello che serve, e che alcuni governi erogano, sono politiche sociali per i giovani, principale strumento per arginare la piaga della disoccupazione giovanile e aiutare la fascia di popolazione che maggiormente si trova a rischio di esclusione e di povertà. Secondo i dati pubblicati dalla Commissione europea nel Commission Staff Working Document – Results of the method of coordination in the youth field with a special focus on the second cycle (2013-2015), che presentano un’analisi comparativa delle politiche e degli stanziamenti destinati ai giovani, l’Italia avrebbe investito solamente 5.278.360 euro del Fondo Nazionale Giovani, spartito tra Comuni (659.795 euro), Province (264.445 euro), Regioni (3.298.447 euro) e Amministrazione centrale (1.055.672 euro) a cui si aggiungono (al netto della spending review) 128 milioni per il Servizio civile, mentre la Germania ha stanziato 35.526.752.000 euro e in Danimarca ai giovani è andato l’1% del Pil (circa 1,5 miliardi). La Francia ha destinato 244.551.876 euro, la Spagna (nonostante si trovasse nel pieno della crisi economica) 25.924.000 euro e gli svedesi oltre 31 milioni.

Non sto a proseguire con i dati. Chi fosse interessato può trovarli in questo articolo del Fatto Quotidiano: “Bonus 500 euro ai 18enni, quando l’investimento in cultura non segue la strategia europea“.

In Italia soffriamo di un certo scollamento fra la scuola e il mondo del lavoro. Sebbene la nostra scuola pubblica, nonostante le sempre maggiori difficoltà, riesca a garantire un buon livello di istruzione, quasi mai chi esce dalle aule del sistema formativo è in grado di affrontare i problemi che quotidianamente dovrà risolvere in ufficio o in fabbrica. E non tutti possono permettersi ulteriori cinque anni, fra l’altro costosi, di università. Non sarebbe quindi stato più opportuno investire questi fondi in modo tale da creare una camera di compensazione fra formazione e attività lavorativa? Certo, non con la formula dei tirocini attualmente in essere, dato che rappresentano soltanto una sorta di regalia a qualche piccola impresa che ha modo, così, di utilizzare manodopera gratuita per qualche settimana e poi chi s’è visto s’è visto.

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